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«Il contatto con la Natura è l’unico legame dell’uomo con le sue origini»

L’intervista a Francesco Bosso, fotografo barlettano collezionato in tutto il mondo

È partita da poco la mostra intitolata “A White Tale”, una doppia personale nel museo Pino Pascali di Polignano a Mare, in cui le fotografie del barlettano Francesco Bosso dialogano con le sculture del maestro Iginio Iurilli, nell’armonica cornice di una cittadina sul mare d’inverno. Il “fotografo del silenzio” com’è stato più volte definito il barlettano Francesco Bosso, è celebre in tutto il mondo, non solo per la bellezza e l’eleganza, talvolta malinconica, delle sue fotografie quanto per la loro unicità. Avvalendosi di metodologie tradizionali infatti realizza scatti fotografici col banco ottico, compiendo viaggi esplorativi e meditativi. In fase di sviluppo le sue fotografie prendono vita e corpo mediante un metodo artigianale, che il Bosso cura personalmente, per diventare poi opere d’arte di inimitabili collezioni. Ricercatissimo e ammirato è un talento tutto barlettano, con una concezione della fotografia e delle vita ricche di una sapienza che pochi sanno conservare nell’epoca dell’immediatezza e dell’approssimazione.

Viene definito il “fotografo del silenzio”: da dove ha origine la ricerca fotografica di un elemento così “intangibile”?

«Il “Silenzio” nelle mie opere è una sensazione percepita da molti, in realtà il focus della mia ricerca è raccontare delle atmosfere e delle emozioni che incontro sul mio cammino.

Amo fotografare luoghi incontaminati e poco frequentati dall’uomo, ma non in termini documentaristici, piuttosto come esternazione di una mia visione interiore per poter offrire all’osservatore l’opportunità di scoprire elementi di connessione tra interiorità ed esteriorità del mondo che ci circonda».

Le sue fotografie sono opere d’arte collezionate in tutto il mondo, in cui le immagini offrono una visione quasi drammatica della bellezza della natura attraverso il bianco e nero. Come nasce questa scelta?

«Il bianconero è una precisa scelta di stile, credo che il colore non sia in grado di aggiungere nulla alle mie immagini, anzi, credo che spesso distragga l’osservatore, raramente mi capita di vedere immagini a colori davvero interessanti, ma naturalmente questa è la mia opinione. Credo che il bianconero sia un linguaggio elementare e questo aiuta il mio racconto ad essere compreso più facilmente».

L’uso del banco ottico indica una chiara linea professionale in controtendenza con le tecniche del momento. In una società che viaggia alla velocità della luce perché ci affascina l’uso di tecniche tradizionali?

«Questa è una scelta radicale legata alla ricerca della perfezione e della massima qualità, è vero la tecnologia digitale ha fatto progressi inimmaginabili rispetto a qualche anno fa, ma purtroppo a favore della velocità del lavoro e della possibilità di trattamento delle immagini, non sono ancora disponibili materiali paragonabili alla qualità delle stampe su carta alla gelatina d’argento scattate con banco ottico. Il fascino credo derivi dal piacere di osservare tutto ciò che è desueto, per il mio lavoro viene particolarmente apprezzato l’approccio artigianale all’esecuzione dell’opera, che diviene in quanto tale un pezzo unico pur essendo didascalicamente le fotografie dei multipli».

Quali sono i passaggi salienti del processo nella tecnica da lei utilizzata per la realizzazione delle sue fotografie?

«Tutto parte dalla visualizzazione di un’immagine, lo scatto è una fase importante dove la scelta della luce fa la differenza, poi viene lo sviluppo della pellicola secondo procedure testate per raccogliere ogni minimo dettaglio e sfumatura del soggetto, qui siamo a metà dell’opera, perché il processo di stampa in camera oscura è un’attività importante nella fotografia in bianconero, è come diceva il maestro Ansel Adams, è l’esecuzione di uno spartito musicale e, questo ovviamente incide molto sul risultato finale, per questa ragione eseguo personalmente tutte le mie stampe.»

Il banco ottico favorisce una certa “visuale d’insieme”, una profondità di campo che offre prospettive diverse. Quanto incide quel “distacco” nella sua produzione artistica?

«Più che lo strumento è l’approccio che condiziona i risultati. Il mio è un metodo di lavoro severo, rigoroso che segue una disciplina che non lascia nulla al caso. Lavorare mediamente venti minuti per un singolo scatto è un tempo inconcepibile per chi scatta in digitale, questo è quello che definisco un approccio meditativo».

A White Tale è una doppia personale in cui le sue opere dialogano con le sculture di Iginio Iurilli. Come avviene quest’incontro tra arti?

«Questa è stata una scelta curatoriale dell Museo Pino Pascali che ha individuato delle affinità elettive tra i miei lavori e quelli del maestro Iurilli, in effetti guardando la mostra è palese la sinergia tra le immagini e le forme scultoree, quasi un lavoro realizzato a quattro mani, pur essendo invece le stesse opere realizzate in luoghi e tempi diversi. Il Museo è un’eccellenza della nostra regione, un luogo con una straordinaria atmosfera meditativa, sono molto orgoglioso di questo progetto. La direttrice, la dottoressa Branà è il deus ex machina della struttura, persona di grande competenza ed esperienza di arte contemporanea, supportata dal curatore senior Antonio Frugis, ma tutto lo staff lavora con grande professionalità e dedizione».

Nella sua mostra abbiamo visuali inedite di distese ghiacciate, panorami desertici e scenari marini solcati da iceberg. Una favola bianca, talvolta spaventosa. Come vede il rapporto uomo-natura alla luce della contemporaneità?

«Il bianco è il colore più diffuso in natura, ma al tempo stesso il più difficile da rappresentare. Il bianco è un colore spesso ricorrente nelle mie immagini. Per citare le parole di Walter Guadagnini “In queste opere e soprattutto negli ultimi lavori emerge ancora il sublime, ma in questo frangente come sentimento che nasce anche dall’inquietudine”. Dobbiamo assolutamente rivedere i nostri canoni comportamentali, è mio desiderio comunicare, diffondere e condividere un’etica di protezione e conservazione delle spettacolarità naturali che, siamo ormai disabituati a guardare in un certo modo, dimenticando totalmente che il contatto con la Natura è l’unico legame dell’uomo con le sue origini».

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