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Mostre “Inhuman” e “Heimat” a Barletta, dal racconto della disumanità all’abbattimento dei confini

Le foto dell'esposizione

E’ difficile dare forma espressiva alle due mostre inaugurate il 18 luglio, nei sotterranei del Castello Svevo di Barletta. “Inhuman”, esposizione delle opere dei tre artisti internazionali Kendell Geers, Oleg Kulik e Andres Serrano, ed “Heimat”, con opere della scultrice Jasmine Pignatelli, pertinenti al “Circuito del Contemporaneo” e a cura del Teatro Pubblico Pugliese (sotto la direzione artistica di Giusy Caroppo), posseggono un fascino senza tempo, una malia brutalizzante e/ma performante. Le due si compenetrano e compensano, snodandosi lungo un percorso che della crudezza della realtà ha fatto il proprio leitmotiv, trasfigurando i sotterranei del maniero in un vero e proprio forziere di perdizione. Oleg Kulik, artista ucraino, noto per le sue eccentriche e provocatorie esibizioni artistiche in cui simula un cane, Kendel Geers, artista concettuale sudafricano, e Andres Serrano, statunitense di origine e fotografo sui generis, acclarato per le foto con protagonisti cadaveri e soprattutto per il suo Piss Christ (foto di un crocifisso immerso nella sua stessa urina), sono personalità lontane geograficamente e artisticamente, ma accomunate da un gusto per l’eccesso che ha fatto della loro mostra smalto di riflessione.

Le opere di Kulik sembrano alludere all’irreversibilità della bestialità umana spesso edulcorata e mimetizzata alle convenzioni sociali, ad una disumanità connaturata all’umanità, attraverso un gioco dualistico di doppi valori semantici e antinomici che rendono i suoi capolavori un attestato di spaventosa consapevolezza. Di grande attualità, per voler citare un esempio, la stampa fotografica “The New Sermon”, ritraente una scena avvenuta nel Danilo Market di Mosca, in cui Kulik è travestito da Cristo e al posto degli avambracci sfoggia delle zampe, simulando sguaiati versi animali. Come non sentire un’opera di tale incisività vicina al nostro tempo, all’era del Covid-19, che ha visto il primo focolaio proprio in un mercato di animali vivi, destinati alla morte senza la minima esitazione.

 

 

 

I capolavori di Geers sono invece un riflesso della ferocia e della violenza, dell’oltraggio alla libertà individuale. Un’installazione rappresentativa è “PrayPlayPreyPay”, che riproduce due mani giunte, disperatamente incagliate nella pietra, realizzate in bronzo e paralizzate da due manette. Esplicativo il titolo (“PregaGiocaPregaPaga”), che gioca abilmente sul significato del verbo “play”, il quale assume valori diversi, traducibili anche con il verbo “far finta”. La sprezzante lotta contro l’apartheid di Geers si dimena senza sosta, estendendo la sua denuncia successivamente anche al capitalismo e alla sua brutalità esanime.

 

 

Sulla stessa stregua si districano le opere d’arte di Andres Serrano.Torture”, progetto del 2015, è stato realizzato circa un decennio dopo le angherie messe in atto nel carcere iracheno di Abu Ghraib, che ispirarono al fotografo un avvicendarsi toccante di scatti che avrebbe suggellato di lì a qualche tempo “Di cosa non parliamo, quando parliamo di tortura”, articolo del New York Time Magazine. Ed è così che il Castello Svevo di Barletta ha “ospitato” i supplizi di Fatima, ad esempio, tormentata e martoriata in Sudan, o di uomini “incappucciati” di cui è stato censurato il volto ma dai quali, nonostante l’acefalia indotta, trasuda la sottomissione alle cinque tecniche inflitte dall’esercito britannico: incappucciamento, posizioni di stress, rumore bianco, privazione del sonno, di cibo e acqua.

 

 

I lavori di Jasmine Pignatelli, accorpati nella mostra “Heimat”, lemma tedesco col significato di “patria”, si inseriscono dunque in questo tetro “dedalo” di sofferenza, come un’eco di speranza, come una melodia che erompe da un lamento. “La terra è una patria senza confini”, così viene presentata la sua esposizione, che consta di 13 porzioni di terra estratte da alcuni dei luoghi più significativi della storia d’Italia, allegoria di un passato che vuole diventare “humus” fertile per il presente. E così, le terre del pozzo di Alfredino Rampi, della scuola di Barbiana, di Riace e Lampedusa, Morterone, del quartiere Tamburi di Taranto, dell’albero dedicato a Giovanni Falcone, di Ostia Scalo (che ha visto l’omicidio dello scrittore Pier Paolo Pasolini) e in ultimo anche della città di Eraclio, diventano tasselli di un puzzle inclusivo, in cui non esiste il diverso, dove non esiste xenofobia, dove l’heimat comune è una terra di condivisione, depositaria di idee, in cui individualità e collettività diventano la duplice faccia di uno stesso volto.

 

Ed ecco che quella ferinità belluina (e tristemente reale) che ci aveva toccato nei primi minuti, converge in uno “sharing the land” conciliatore, in un’oasi di purezza che dà sollievo, che tenta di pacificare un passato contuso.  

 

A cura di Carol Serafino

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