15 marzo-6 aprile: due date come due spade di Damocle inflitte nel petto. È così, dilaniati, che probabilmente si sentono i titolari di quelle attività che, a causa della nuova impennata di contagi da Covid-19, sono stati nuovamente costretti a chiudere i battenti. Eppure c’è chi ha sul groppone un fardello ben più poderoso del peso del globo terrestre sorretto da Atlante (per fare un paragone con la mitologia greca) e purtroppo da molto più tempo: palestre e piscine rimangono infatti (ancora) chiuse. Il Cts ha invitato alla prudenza e con questo presupposto è stata sconsigliata la ripresa delle attività sportive.
Abbiamo ascoltato le considerazioni del personal trainer barlettano Davide Dibitonto, titolare della Total Wellness personal training, che unanimemente ai suoi colleghi, non approva questa scelta. «Penso che la nostra categoria sia stata la più martoriata dall’inizio della pandemia – spiega – siamo stati il capro espiatorio tra tutte le categorie di lavoratori. Un fattore che ha inciso è stato sicuramente la mancanza di un albo, che identifichi la nostra figura professionale. Nonostante il percorso accademico che abbiamo alle spalle, senza questo riconoscimento, la nostra professione risulta invisibile o quasi».
Ma non solo. «Un altro fattore a nostro sfavore – prosegue Dibitonto – è la totale mancanza di una cultura sportiva e salutistica che invece, come ampiamente dimostrato, risulta essere la forma assoluta di prevenzione, in quanto riduce notevolmente fattori di rischio di numerose malattie che gravano sul sistema sanitario ed economico del paese». Ma esiste una gerarchia, una sorta di ordine occupazionale, che detronizza alcuni piuttosto che altri e li espropria di diritti? Lo sportivo ha detto la sua: «Ciò che mi ha principalmente turbato è stata la disparità di trattamento avvenuta tra noi ed altre attività, anch’esse aperte al pubblico. Vedere queste ultime oggettivamente stracolme di persone con distanziamenti inesistenti cozza con la chiusura delle nostre attività. Con i lavori di adeguamento svolti a nostre spese e atti a garantire la sicurezza degli utenti, avremmo assicurato un servizio nel pieno rispetto delle norme sanitarie imposte. Nonostante tali spese e tali sacrifici è stato tutto vanificato dopo qualche mese con una nuova chiusura, venendo definiti “attività non essenziali”.
A fronte di ciò ci siamo riorganizzati con lezioni all’aperto per i nostri clienti, che invece comprendono bene l’essenzialità del nostro servizio, sfidando condizioni climatiche avverse, ed ora, dopo mesi di sacrifici, senza ricevere ristori neanche lontanamente sufficienti a coprire le spese minime ed ordinarie che un’attività regolarmente tassata deve sopportare, ci ritroviamo esattamente al punto di partenza di marzo 2020. Questa disparità di trattamento e queste decisioni infondate hanno scaturito personalmente molta rabbia, poi pian piano la rabbia ha lasciato posto alla frustrazione e alla rassegnazione, dettata dal fatto che, contrariamente da ciò che si idealizza, esistono tuttora troppe diseguaglianze in ambito lavorativo. Il diritto al lavoro decantato dalla Costituzione resta ad oggi un’idea utopistica».
A cura di Carol Serafino