Una storia che irrora orrore, lava di sangue, ma anche speranza, riscatto, redenzione, possibilità di scelta nella dialettica tra bene e male: tutto questo è Ti mangio il cuore, capolavoro cinematografico del regista bitontino Pippo Mezzapesa con sceneggiatura di Antonella Gaeta e Davide Serino. Il film, ispirato all’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, radiografa con ancestrale veridicità e con una fotografia che attraverso il bianco e nero restituisce allo spettatore le tinte nebbiose e caliginose delle vite cui dà voce, il retropalco terrifico dell’organizzazione mafiosa che nei primi anni 2000 dominava il promontorio del Gargano.

“Un atto politico e sociale”, come lo ha definito l’autore Giuliano Foschini, che vuole essere non solo un attestato della realtà di quegli anni (non poi così lontani) ma anche e soprattutto una risposta ardita a quella che è sempre stata l’arma sfoderata dalla mafia: il silenzio. Il romanzo è un’analisi capillare e pedissequa del fenomeno mafioso della Capitanata e del Gargano. Proprio partendo da questo Pippo Mezzapesa ha voluto realizzare un film dall’architettura complessa, soprattutto perché sorregge il peso di una testimonianza vissuta e ancora molto dolorosa: quella di Rosa Di Fiore, la prima pentita di mafia garganica, colei che aveva amato due boss della malavita e a cui si ispira il personaggio di Marilena, protagonista del film e impersonata da Elodie.

«Realizzarlo è stato emozionante – ha dichiarato Mezzapesa durante l’incontro avvenuto ieri al Cinema Opera di Barletta –. Avevo già conosciuto la storia di Rosa parecchi anni fa, nel 2007, perché me ne aveva parlato il giudice Volpe, che è uno dei protagonisti del romanzo. Mi è sembrata immediatamente una storia cruda, interessante, fortissima, emozionante, una storia anche e soprattutto profondamente dolorosa. Una di quelle storie che incidono e che devono essere raccontate».

Il film, imperlato da una tavolozza timbrica che rispecchia la gravosità e la crudezza che lo dominano, si concatena intorno ad un’avita lotta, una faida tra due famiglie, i Camporeale e i Malatesta, legate ineluttabilmente da una rivalità che troverà l’apice della sua asperità quando Marilena Camporeale, moglie di Santo Camporeale (ispirata a Rosa Di Fiore) e il giovane Andrea Malatesta si innamorano perdutamente. Con una cornice profondamente corale e dominata da una notevole varietà di personaggi, il tempo del racconto viene scandito dalla natura, dalla vita rurale, dal ritmo del bestiame da una parte e della ferina bestialità dell’uomo dall’altro.

«Noi partiamo dalla storia reale – ha proseguito il regista bitontino –, una donna che ha fatto delle scelte drammatiche, drastiche, difficili. Una donna che si è immersa nel sangue, nella realtà, nella vendetta e ne è riemersa. Farlo è stato complesso, soprattutto perché noi questa donna l’abbiamo conosciuta, abbiamo avuto degli incontri e abbiamo visto l’emozione e il dolore nei suoi occhi, ma anche e soprattutto la forza. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di riuscire a restituirla a voi».

Nel titolo Ti mangio il cuore soggiace già la lesiva ambivalenza annidata nel film: quella della furia, pronta a divorare a crudo i nemici, e quella di una passione che ha causato quella violenza e alla quale era negato un lavacro per la coscienza. Un amore che ha quasi un retaggio shakespeariano e le “sembianze” di Romeo e Giulietta, non sopravvissuti al destino d’odio tra Montecchi e Capuleti: «Viene abbastanza facile paragonare i protagonisti a loro perché si parla di un amore bruciante, un amore che non andrebbe vissuto, che i due ragazzi si ostinano a vivere. Un amore che fa scoppiare una faida, una lotta familiare, sono dei Romeo e Giulietta che non hanno mai conosciuto l’innocenza e destinati a bruciarsi sulla pira della vendetta».

Ed è così che “Lasciami la faccia”, il leitmotiv premonitorio di morte che riecheggia nel film con battente e desolante regolarità, è stato soppiantato da chi come Rosa nella vita ha deciso di mettercela la faccia, per riuscire a riemergere nel lungo processo di liberazione, espiazione e redenzione che l’ha accompagnata per metà della sua vita.

Alta cinematografia, apporto produttivo denso di professionisti e narrativa d’inchiesta sono dunque gli ingredienti del successo di Ti mangio il cuore, imbevuti di ricerca, indagine, tenacia, trepidazione, pathos, ma soprattutto di sentimento: lo stesso che ha unito Rosa Di Fiore ed Elodie alla prima del film in un intimo, commosso e indimenticabile abbraccio.

 

A cura di Carol Serafino