“Rino, il ragazzo della carne” diventa uno short film. Il racconto partorito dalla penna di Tommy Dibari e incluso nell’antologia di “Inchiostro di Puglia”, libro che raccoglie dall’idea di Michele Galgano 36 dei migliori autori pugliesi, sarà infatti raccontato in un video da una troupe in arrivo dalla Germania. A guidarla Julika Brandestini, giornalista tedesca freelance e traduttrice di autori del calibro Michela Murgia, Michele Serra e Daria Bignardi. “Ho saputo del progetto Inchiostro di Puglia tramite Mariacarmen Morese dal Goethe Institut di Napoli – spiega la Brandestini – che mi ha chiesto di realizzare un seminario di traduzioni coi studenti dell’Università del Salento. In occasione dell’uscita di alcune di queste storie tradotte al tedesco in Germania nel 2020, ho pensato di realizzare questo trailer promozionale per promuovere le storie scelte, tra i quali ‘Rino, il ragazzo della carne’, che mi piace tanto, ma anche l’intero progetto in Germania”. La Brandestini sarà a Barletta nel pomeriggio di domenica 5 maggio, per intervistare Tommy Dibari e ripercorrere con l’autore l’atmosfera e la genealogia dei personaggi che impregnano le righe di “Rino, il ragazzo della carne”.

“Se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio” ha scritto l’autore russo Lev Tolstoj, e pare che l’autore e scrittore Tommy Dibari, abbia preso la massima di Tolstoj alla lettera, tanto è che il suo racconto ambientato nel centro storico di Barletta all’alba degli anni’80, e ora si propone magari di arrivare in tutto il mondo. Un progetto possibile anche grazie al lavoro di Julika Brandestini, che a Barletta sarà accompagnata dal suo collega Malte Heynen per raccontare le vicende di Rino, ragazzo del 1982 che nei giorni in cui l’Italia si laureava campione del mondo in Spagna cresceva “nel quartiere vecchio di Santa Maria, le donne della Marina comunicavano da un balcone all’altro infilzando le mollette nei panni stesi all’aria, si raccontavano i fatti loro e loro, così dicevano, mentre il profumo del ragù della domenica sbuffava da ogni pertugio come un treno a vapore”. Immagini che si preparano a passare dalla carta al video, in un ponte culturale Italia-Germania.

TOMMY DIBARI– Autore e scrittore, è anche pubblicitario, docente di scrittura creativa e che oggi ricopre il ruolo di direttore generale dell’agenzia di comunicazione Wake Up, veder dare alle stampe il suo quinto libro. In precedenza ha infatti pubblicato “La Cambusa. Storia d’amore e di altre malattie” (Rizzoli, 2007), “Non ho tempo da perdere” (Cairo, 2011), il pluripremiato “Sarò vostra figlia se non mi fate mangiare le zucchine” (Cairo, 2015) e “Me la sono andata a cercare” (Cairo, 2017). “Nella mia carriera ho fatto tante esperienze, anche molto importanti come lavorare nel team di autori di programmi televisivi nazionali come Striscia la Notizia, Artù, Paperissima e Paperissima Sprint, ho pubblicato altri libri, ho scritto per il teatro, il cinema e per la musica, ma raccontare la storia di quello che per me rappresenta un autentico pezzo di infanzia mi dà sensazioni davvero molto forti”, aggiunge Tommy Dibari.

RINO, IL RAGAZZO DELLA CARNE

1982. Quell’estate Barletta scottava come un ferro da stiro bollente, il caldo inzuppava le ossa e si stava soffocati come pulcini dentro una scatola di scarpe. Se provavi a tirare su la testa per respirare, il mondo appariva in una luce zafferano come uno scatto fuori fuoco. Paolo Rossi avrebbe infilato tre pappine al Brasile di Falcao e pertanto, le sbombardate dei ragazzi contro il portone della Cattedrale Maggiore, avevano tutti i nomi della nazionale e di quella indimenticabile stagione.

Nel quartiere vecchio di Santa Maria, le donne della Marina comunicavano da un balcone all’altro infilzando le mollette nei panni stesi all’aria, si raccontavano i fatti loro e loro, così dicevano, mentre il profumo del ragù della domenica sbuffava da ogni pertugio come un treno a vapore. La povertà del quartiere in quegli anni cariava i sogni di chiunque, e l’eroina, proprio come l’acqua, si infilava dappertutto. I ‘uagnon si facevano nei vicoli della chiesa di Sant’Andrea tra il piscio dei gatti e il ronzio delle zanzare, collassavano con le spalle al muro del carcere mandamentale oppure a dorso nudo, sopra i basolati nei pressi delle scalinate. Stavano con il naso all’insù ad ammirare le stelle, ma visti da vicino erano soltanto merce avariata. Santa Maria era il regno dei pescatori e quelli del centro non si erano ancora comprati tutti gli appartamenti del borgo antico. Il Fornaricchio, scaldava tranquillamente le teglie di pasta al forno per il popolo con gli zoccoli e nessuno, proprio nessuno, si immaginava che trent’anni dopo, da quelle parti, qualcuno avrebbe aperto un sushi bar e sarebbe andato pure bene. Tra quelle sacche gengivali viveva Rino, quattordici anni a maggio di cui tre, passati a fare il ragazzo della carne per conto della macelleria Capasso. Come un Supersantos schizzava da una parte all’altra della città per sentirsi dire più o meno la stessa cosa, “Sali, terzo piano!”, o semplicemente, “scendo io, aspetta!” Consegnava così salsiccia di cavallo, filetto tagliato sottile e chissà quante spangelle nei condomini della Barletta City. L’obiettivo da raggiungere era sempre uguale e valeva tutta la sua libertà: la mancia! Tra i clienti di Capasso c’erano anche i genitori dei suoi compagni di scuola, quelli della terza B Giuseppe De Nittis, gente che apriva la porta e consegnava frettolosamente il resto senza una parola. Ma Rino se ne fotteva di tutti, lui correva e portava, portava e correva. “Signo’, a che piano?” E poi via a scorazzare con la sua bici senza freni lungo la litoranea di ponente in mezzo a pini marini, palme avvelenate e fogna rotta. Magro come un fil di ferro e nero nero come un vermetto, se ne stava dentro la sua divisa fissa: jeans tagliati corti del fratello grande e maglietta lisa. La bici invece puzzava di ruggine sgretolata, di usato, proprio come i suoi mocassini di due taglie più in là e dalle suole logore per le mille frenate coi piedi. Sotto le ruote, uno ad uno, i chilometri di lacrime controvento se ne andavano via veloci in una splendida passerella dinanzi al Paraticchio. Adorava rompere i coglioni a chiunque Rino, zompava il cappello ai vecchi e sputava ai rari turisti di passaggio. Ma la cosa che gli piaceva di più, era andare sul Braccio del Porto, tuffarsi dal Trabucco e restare con le mutande bagnate sugli scogli imporporati dal sole. Aveva gli esami di terza media quell’anno Rino, una meta raggiunta grazie all’influenza miracolosa della Madonna sotto al campanale, “quella con le mani alzate”, come diceva zia Rosaria, “quella che quando interviene, se interviene, lo fa in silenzio e si cuce poi la bocca!”Insieme alla Madonnina, una grossa mano a Rino era arrivata anche dal professor Spadaro, il quale non aveva mai smesso di stargli vicino e di passargli poesie. Erano versi che Rino fingeva di rifiutare ma che segretamente, riportava sulla carta della carne. Il poeta preferito dal professore era Bodini del quale Rino conosceva ogni verso a memoria, versi che Rino però, ripeteva a voce bassa, tanto per non farsi dare del ricchione dagli amici di scorribande. “Cade a pezzi a quest’ora nelle terre del sud un tramonto di bestia macellata, l’aria è piena di sangue”. Gli ricordavano il suo lavoro, forse per questo li amava così tanto. Si presentò agli esami in perfetto ritardo, con il look di sempre e il solito fare da bullo strafottente, infilò il culo stretto nel banco e con la penna poggiata sull’orecchio sinistro, si mise a fissare la commissione come si fissa un plotone d’esecuzione. Traccia: descrivete le bellezze storico artistiche della vostra città con precisi riferimenti e metafore. Partirono tutti tranne Rino. Il professor Spadaro allora, sfidò lo sguardo del ragazzo della carne come in un film western di Sergio Leone e sparò per primo, “muoviti, che aspetti!” Per Rino fu lo start.

Svolgimento: Le bellezze storico artistiche della mia città sono assai. La cattedrale di Santa Maria Maggiore per esempio, è bianca bianca come un filetto di pollo arrostito, il gigante invece, Eraclio per capirci, è tutto di bronzo, durissimo come le ossa delle spangelle. Molto bella è pure la chiesa del Santo Sepolcro, so che apparteneva ai Templari. I Templari sono anche il nome del ristorante dove abbiamo festeggiato la comunione di mia sorella piccola. Davanti, la chiesa è un poco sporca devo dire, sembra lardo di colonnato affumicato. Infine sta palazzo della Marra, quello che abbiamo visto alla gita istruttiva: tiene il balcone al centro tutto riccioluto, assomiglia al macinato quando esce dalla macchinetta della salsiccia. Ma la cosa che mi piace di più della mia città è il tramonto, cade a pezzi ad una certa ora sulla terra del sud e sembra una bestia macellata. L’aria diventa piena di sangue. Fine. Fu una bocciatura senza appello quella che si beccò Rino, “cattivo gusto”, la sentenza della professoressa Sciancalepore, presidente di commissione che ignorò, per ignoranza, il fatto che quel figlio di puttana di Rino si fosse appropriato dei versi di Bodini senza nemmeno citarlo. Quell’anno però la scuola bocciò non soltanto Rino e le speranze del professor Spadaro, bocciò anche Bodini, di cui, evidentemente, non conosceva nemmeno l’esistenza. Ma la scuola è così, se non le assomigli ti respinge. Pochi giorni dopo, al pian terreno dell’istituto Giuseppe De Nittis di via Libertà, furono appesi ai muri i quadri per l’ammissione agli orali. Rino, in mezzo a quella calca, riuscì a leggere appena il suo NON AMMESSO, nient’altro. Si sentì perdere fiato, svuotato di ossa e muscoli, incapace di muovere qualunque arto e immobilizzato come un moscerino dentro colla bollente. La sera stessa il padre lo avrebbe stroppiato di mazzate col classico menù: cinghiate dalla parte della fibbia e anelli delle mani rivoltati. Quando la cosa accadde però, Rino trovò per ogni colpo, la forza di stamparsi addosso un sorriso malandrino e beffardo. I lividi in fondo, li stava spartendo con Bodini!