Incontriamo la restauratrice e storica dell’arte barlettana Cinzia Dicorato, che ha da poco terminato il restauro dell’ultima tavolo dell’iconostasi interna alla Chiesa dei Greci. Ci racconta della sua trentennale esperienza nella propria città oltre che nel territorio regionale.iconostasi-chiesa-greci

La Chiesa di Santa Maria degli Angeli, conosciuta anche come Chiesa dei Greci, sita in pieno centro a Barletta, è uno scrigno prezioso che contiene uno dei più importanti e bei tesori della città.

«L’iconostasi di Barletta è un’opera monumentale. Sviluppata in altezza su quattro registri più la croce-ancora finale. Nel primo registro sono riportate le tre porte dei tre altari. Quelli laterali della Prothesis, del Diakonicon e quella centrale del “Bema” (luogo sacro). Sempre nel primo registro, sono riportate le tavole più importanti, quelle che raffigurano la Madonna Odighitria e il Cristo Pantocratore, entrambe dipinte da Thomas Bathas. Nel secondo registro, sono allocate le icone delle dodici feste liturgiche. Nel terzo registro, le tavole degli apostoli con gli evangelisti e San Pietro e Paolo. Nell’ultimo, la Deesis con il Cristo al centro e la Madonna e San Giovanni evangelista ai lati. Infine il capitela, la croce a forma di ancora. Descrivere per cenni quando ci si riferisce a opere complesse è sempre molto riduttivo. Sottolineando la complessità, possiamo dire che un’iconostasi è un’opera indispensabile in una chiesa di rito ortodossa, una chiesa che suddivide lo spazio organizzandolo in funzione liturgica. Dove lo spazio diviene, nella sua totalità, l’immagine plastica del regno divino sulla terra. Di conseguenza, l’iconostasi è una parete che segna lo spazio tra il mondo terreno e il mondo divino. Divide la navata, dove sono i fedeli, dallo “ieron”, il luogo sacro dove può accedere solo l’officiante dopo aver indossato le vesti per celebrare».

Lo abbiamo definito scrigno, ma non si riesce a renderlo aperto e fruibile ai turisti, e anche alla maggior parte dei barlettani che molto probabilmente non lo conoscono nemmeno.

«Scrigno è la giusta definizione perché la chiesa, che appare anonima all’esterno, poi quando si apre appaiono i gioielli conservati nel suo interno. È vero che i barlettani non la conoscono, anche perché chi aveva memoria di cos’era questa chiesa o è molto anziano oppure non c’è più. Nel frattempo l’amministrazione, che si è adoperata per restaurarla, non ha mai deciso come utilizzarla. Uso questa parola che può sembrare prosaica, ma è quella che meglio può rendere l’idea. È nell’uso, nella fruizione, la vita e la conservazione di queste opere perché attraverso la loro conoscenza non solo permettiamo la trasmissione di quella cultura, ma soprattutto la comprensione e il rispetto per ciò che ci è stato lasciato in eredità. È attraverso la conoscenza e la fruizione che si attiva la salvaguardia. Senza considerare che questa chiesa è un’opera di grande interesse turistico».

Da pochi giorni ha terminato il restauro dell’ultima tavola, quella di San Basilio: come mai questo ha richiesto molto più tempo rispetto al resto dell’iconostasi? Cosa rappresenta?

«Intanto la domanda non va posta separata. I tempi lunghi erano legati allo stato di conservazione dell’opera che era disastroso e questo ha richiesto di separare l’intervento sulla tavola da quello sull’intera iconostasi. Descrivendo la tavola possiamo dire che questa rappresenta San Basilio vescovo. Il Santo è rappresentato nelle sue vesti vescovili con tutti gli elementi identificativi della sua immagine. La veste vescovile annulla ogni identificazione della persona: il presbitero che vive ed opera non in funzione di sé ma del suo ruolo religioso. Le vesti sono gli attributi della sua dignità di vescovo: l’emoforion, la stola vescovile rigirata sulla spalla sinistra; l’epitrachilion, la stola sacerdotale che pende fino a terra; l’epigonation che indossano gli ecclesiastici di ordine superiore come simbolo della borsa delle elemosine. Infine, l’evangelario con la copertina impreziosita dall’argento e dalla raffigurazione dello Spirito Santo».

Ha fatto cenno a controversie burocratico-politiche che ne hanno ritardato il lavoro. A cosa si riferisce?

«Mi riferisco ai tempi lunghi che ci sono voluti per decidere di portare a compimento questo restauro. Ho già detto che le pessime condizioni di questa icona avevano richiesto la necessità di estrapolarla dal lavoro complessivo dell’iconostasi. Con questo, non voglio dire che il restauro delle altre tavole o della struttura di sostegno non sia stato altrettanto complesso. Ma alla complessità generale dell’intervento si aggiungeva una complessità più specifica. Il legno di questa tavola era estremamente fragile a causa della umidità che ha dovuto assorbire quando la chiesa era in stato di abbandono. Inoltre, sempre in passato, l’azione degli insetti xilofagi l’aveva eroso in profondità. In pratica, si sbriciolava e polverizzava solo toccandolo. Al momento del restauro, le diverse tavole che compongono l’icona erano separate in più pezzi. Alcune tavole erano mancanti, imbarcate e svirgolate. Insomma, una situazione da paura, ma nello stesso tempo una sfida. Per questo era necessario che l’intervento fosse ponderato e accuratamente messo a punto. Sorvolando sulle questioni tecniche, ciò che era importante capire è che i tempi di intervento erano necessariamente lunghi. Che cosa è successo? Nel mentre che si stava lavorando, mi è stato detto di non continuare più perché il finanziamento a disposizione era stato azzerato. Per riprendere i lavori e fare capire la necessità di completare l’opera, ci sono voluti sette anni. Alla conclusione si è giunti grazie all’impegno di Giuliana Damato, allora consigliera comunale, che con determinazione ha portato avanti (attraverso diverse interrogazioni consiliari) l’obiettivo di riprendere il restauro e la sua conclusione per restituire l’opera alla sua giusta collocazione».

Più volte si è dovuti intervenire sulla vandalizzazione dell’ingresso della Chiesa e del suo portone: non crede che la sua fruibilità ne possa eliminare i pericoli di degrado?

«Come ho già detto, la fruizione è la giusta soluzione. Fare conoscere, soprattutto alle giovani generazioni, l’importanza di questa opera e la sua storia e della sua comunità sarebbe un modo per far capire come i flussi migratori sono stati per noi una ricchezza, perché ci hanno lasciato testimonianze che sono da una parte bellezza e dall’altra arricchimento culturale. Il più bell’esempio di integrazione».Barletta, Chiesa dei Greci

L’intero complesso meriterebbe di entrare a pieno titolo nelle tappe turistiche dei visitatori. Cosa auspica, da storico dell’arte e da cittadina di Barletta, per il futuro di questo luogo?

«Ho presentato più volte e alle diverse amministrazioni che in questi anni si sono avvicendate, la proposta di un progetto complessivo che permetta la realizzazione di un sistema museale cittadino con servizi integrati, per poi inserirlo nel sistema museale nazionale che il ministro Franceschini ha costituito nel suo precedente mandato. Che cosa comporta questo? E che cosa occorre? Intanto, per essere inseriti nel sistema museale nazionale è necessario avere specifici requisiti, quelli indicati negli Atti di indirizzo sugli standard museali approvati dal Mibac nel 2000. Questo determina che non si può pensare di gestire il nostro patrimonio museale così come è stato gestito fin’ora, come un qualsiasi ufficio comunale, dove chi lavora sono impiegati con soli profili amministrativi. C’è bisogno intanto di istituzionalizzare il sistema museale; dichiarare che i diversi presidi (Castello, Palazzo della Marra, Chiesa dei greci, ecc) diventino musei con atti costitutivi e regolamenti; avere personale competente con profilo professionale specifico, tecnico e artistico, che attivi i diversi servizi (di accoglienza, di guida, di conservazione, di promozione, di valorizzazione, di ricerca e di produzione culturale, espositiva ecc). Non è possibile trovarsi nella situazione di produrre, come di recente mi è capitato, un evento espositivo per il Palazzo Della Marra e vedere che questo viene realizzato senza tener conto di chi l’ha proposto. Come se essere una storica dell’arte sia uguale a chi è un amministrativo. Infine, dobbiamo pensare ai tanti giovani che studiano e investono in questo ambito e sono costretti a cercare altrove, anche solo per fare una ricerca. È ovvio che l’applicazione di buone pratiche politiche attiverebbe un circuito virtuoso, che porterebbe solo benefici e sviluppo alla nostra cittàۛ».