Un maglione a collo alto e un paio di jeans, una tuta da ginnastica, un tailleur. Forse non è questa la risposta che si aspetta di ricevere chi crede che una vittima di violenza sessuale possa in qualche modo aver istigato il proprio carnefice per il modo in cui era vestita. “Che cosa indossavi?” è una domanda che molte, troppe donne si sono sentite rivolgere dopo aver denunciato una molestia. Non solo nel privato, da parte di familiari o amici un po’ retrogradi, ma anche in contesti istituzionali, nelle aule di tribunale, in commissariato, e in quei luoghi in cui una vittima dovrebbe essere tutelata, ma finisce per ricevere una seconda violenza.
Al fine di sensibilizzare su questo tema le responsabili dell’Osservatorio Giulia e Rossella hanno promosso presso la sala conferenze del Castello Svevo di Barletta l’installazione della mostra itinerante “What were you wearing?-Com’eri vestita?”. Si tratta di una mostra partita dagli Stati Uniti che espone diciassette abiti, ognuno dei quali è ispirato da una storia di violenza e che sarà possibile visitare fino al 21 febbraio dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 16.00 alle 18.30.
Ognuno di quei vestiti riproduce gli abiti indossati da una donna nel momento in cui è diventata un oggetto nelle mani di un uomo. C’è un pigiama, per indicare che la violenza colpisce anche quando ci si sente più al sicuro, ma anche qualche vestito più elegante, per ricordare che nessuna donna merita di essere giudicata per il suo abbigliamento e che in nessun caso quest’ultimo possa giustificare una violenza. C’è la storia di una bambina molestata da suo zio, a cui il giudice ha chiesto la posizione delle sue gambe mentre giocava, e quella di una sposa bambina, violentata ogni notte dal marito che le era stato imposto. Tutte queste donne si sono sentite accusate a causa di un pregiudizio ancora troppo radicato nella nostra cultura, che produce un senso di colpa nelle vittime, spinge le donne a vergognarsi del proprio aspetto, a pensare di doversi coprire per non risultare provocanti, perché altrimenti ci sarà qualcuno che puntando un dito accusatore dirà: “Te la sei cercata”.
E dalle storie emerge anche un’altra pesante verità. Chi commette una violenza sessuale non è un folle, qualcuno che presenta uno squilibrio mentale. I carnefici sono datori di lavoro, colleghi avvocati, parenti, amici di famiglia. La lettura di ogni storia rilascia una sensazione viscida che si deposita sui vestiti, che è difficile scrollarsi di dosso. Ogni parola lascia il cuore pesante e un senso di rabbia e vulnerabilità.
Ma a trasformare quella vulnerabilità in voglia di reagire ci pensano le parole che le organizzatrici dell’esposizione hanno rivolto alle giovani scolaresche in visita con i loro professori: «Arrabbiamoci. E ogni volta che ci rendiamo conto che una violenza di qualsiasi tipo, che sia verbale, fisica o psicologica, circola tra di noi, fermiamola. E se credete di non farcelamostra 2mostrrrrmostrrrmostraamostra33mostra2 e di essere troppo piccoli, anche solo segnalare l’esistenza di un centro antiviolenza può essere d’aiuto».