Vito D’amico nasce a Barletta il 28 ottobre 1925, in via E. Fieramosca, 14 ed è figlio di Emanuele (falegname) e di Maria Sterpeta  Capuano, secondo di cinque fratelli. Il padre emigra a Torino, città in cui lo seguiranno la moglie ed i cinque figli, dapprima con sistemazioni di fortuna, poi nelle case popolari di Borgo San Paolo, cuore dell’emigrazione pugliese e luogo di fermento politico e sociale: il quartiere operaio definito da Gramsci “delle assonanze metallurgiche”. Il padre Emanuele entra in Fiat come operaio e Vito trascorre nelle medesime colonie (invernali ed estive) tutta la fanciullezza, per poi proseguire entrando nel 1940 alla Scuola Allievi Fiat. Lavora prima al Lingotto (a quel tempo uno dei maggiori centri di produzione), poi nel 1941 è trasferito all’Officina 19 di Mirafiori. Qui conosce alcuni militanti comunisti che – assieme ai segreti del mestiere – gli impartiscono i primi rudimenti di una formazione politica antifascista. Vito partecipa agli scioperi del marzo 1943, viene segnalato come elemento sovversivo e licenziato. A fine febbraio 1944, Vito sceglie la lotta partigiana e col nome di battaglia “Douglas” raggiunge la 4ª Brigata Garibaldi.

Le Brigate “Garibaldi” e SAP (Squadre d’Azione Patriottica)

I garibaldini, organizzati in diversi distaccamenti con a capo un comandante, prendono la via dei monti, presidiando i valichi, utilizzando come basi le baite di pastori, dove alternano l’addestramento militare e la formazione politica e civile necessaria alla nuova Italia per la quale si battono. Col suo celebre ardimento, il gruppo della 4ª brigata Garibaldi esercita una forte influenza sui giovani.  I garibaldini fanno  sentire il loro appoggio attraverso azioni di guerriglia: sabotaggi alle linee, prigionieri liberati, viveri prelevati  e distribuiti alla popolazione. L’impossibilità di resistere ai nazifascisti, che avevano sferrato un attacco nei dintorni di Montoso (Cuneo) costringe i garibaldini a ritirarsi nell’alta Val Pellice.  Vito condivide le vicende della sua brigata fino alla fine d’agosto, quando – ferito ai piedi – è costretto a rientrare a Torino (dove sarà nascosto e curato da una vicina). Ripresosi dal ferimento, entra a far parte della Brigata SAP (Squadre d’Azione Patriottica) “Eugenio Curiel” (partigiano ebreo ucciso a Milano) di cui diventa comandante del 3º distaccamento di brigata, organizzando i grandi sabotaggi alla linea ferroviaria Torino – Modane e dando un contributo decisivo alla liberazione di Torino, dopo una lotta quartiere per quartiere, il 28 aprile del 1945, prima dell’arrivo degli alleati. In questo frangente, Vito conosce Giovanni Roveda (partigiano, primo sindaco di Torino dopo la Liberazione, poi membro della Costituente e grande ricostruttore dell’azione sindacale), cui rimarrà legato tutta la vita.

Vito D’amico (quinto in piedi da sinistra) che, insieme alla sua brigata, si prepara ad unirsi alla parata del 28 aprile 1945, raggiungendo piazza Vitto Veneto;

Il dopoguerra di Vito D’amico. La carriera sindacale e politica

Vito viene smobilitato con il grado di partigiano combattente, sebbene esentato dalla leva, accetta la richiesta del partito e svolge il servizio militare volontario in Marina. Fra il luglio e agosto del 1946 è uno dei 15 partecipanti della delegazione del Fronte della Gioventù che – con a capo Enrico Berlinguer – è invitato in Russia.  Rientrato a Torino, torna a lavorare in FIAT come operaio, dedicandosi appassionatamente al germogliare della FIOM ed al PCI; in breve tempo  diviene segretario di Commissione interna e responsabile sindacale di fabbrica.

Fu uno dei fedelissimi a cui fu affidatala scorta armata di Palmiro Togliatti, ricoverato all’ospedale dopo il fallito attentato del 1948. Il 29 settembre 1950, sposa Ada Soggetti, dalla quale ha una figlia, Laura. In seguito, licenziato per motivi politici dalla FIAT (fu tra gli organizzatori dei grandi scioperi di Mirafiori del 1951), non trova più lavoro. Sostenuto dalla moglie Ada (che, per anni, avrebbe col suo solo stipendio d’impiegata mantenuto l’intera famiglia), decide di non arrendersi e di continuare la lotta politica. Nel 1956 è membro del comitato generale del Pci e nello stesso anno diventa consigliere comunale di Torino, carica confermata nel 1960 e poi nel 1964. Nel 1968 viene eletto deputato alla Camera dei Deputati. Rieletto nel 1972,si dimette, dopo stato scelto come uno dei due comunisti che per la prima volta composero il Consiglio di amministrazione della RAI, dopo la riforma del 1975. Distintosi per rigore, studio e lealtà, gli viene chiesto di assumere la presidenza della SIPRA(Società Italiana Pubblicità Radiofonica). Uomo umile e benevolo, ha imparato l’importanza della documentazione storica da Camilla Ravera (famose erano le sue “cartelline”). Ancora in vita ha donato i propri archivi all’Unione Culturale di Torino, all’Istituto Gramsci e all’Istituto Piemontese della Resistenza. Guarito dal cancro è, nel 1984, fra i fondatori dell’Associazione Prevenzione e Cura dei Tumori in Piemonte. Muore il 28 luglio 1994, a causa di una miocardiopatia dilatativa, nel quartiere dove sempre aveva vissuto, grato d’esser rimasto un uomo del popolo e fiero cittadino di un avvenire migliore. Il suo impegno per la giustizia sociale è perpetrato dalla figlia Laura, avvocato da 43 anni, specializzata nella tutela penale e nel risarcimento dei danni per le vittime da infortunio e malattia professionale.

Intervisto telefonicamente l’avvocato Gabriele D’amico Soggetti, 35 anni, nipote di Vito, residente a Torino. Gabriele cura e conserva la memoria storica e archivistica di Vito D’amico.

Perché tuo nonno Vito ha scelse di diventare partigiano?

«Perché – con la profonda intuizione che è dei semplici – sapeva che senza una speranza di bene da difendere si vivacchia soltanto e lui amava la vita».

Ti raccontava del periodo da partigiano? Cosa pensava della guerra?

«Racconti no, del periodo da partigiano gli rimaneva l’intolleranza per il pane vecchio; guai a metterlo in tavola: doveva essere fresco o niente. La guerra riteneva fosse un’esperienza collettiva, sulla quale non bisognava stancarsi di meditare. L’unico quadro che aveva scelto di appendere in casa incorniciava la poesia “Testamento”di Kriton Athanasulis, credo dica tutto».

Mi racconteresti l’aneddoto del suo ferimento?

«Non conosco i dettagli dell’azione, so che fu ferito ai piedi e che per questo non poteva restare al Montoso, dove sarebbe stato un peso. Scese a Torino. Il padre gli chiuse la porta in faccia, facendo finta di non riconoscerlo. La madre s’era già venduta tutto il vendibile ed era sparita, sfollata in campagna, per rientrare solo dopo la guerra. Una vicina, che aveva perso l’unico figlio sul fronte russo, lo vide singhiozzante nel sottoscala, lo nascose in cantina e lo curò, salvandolo dal rischio della cancrena. Una volta guarito dalle ferite, ricominciò la lotta».

Agosto 1963, parco collinare di Torino, insieme alla moglie Ada ed ai genitori Emanuele e Maria Sterpeta.

Per quale motivo lasciò la Brigata Garibaldi per passare alle Brigata SAP?

«Perché l’avanzare della guerra richiedeva la necessità di un’azione più forte per la liberazione delle città».

Una volta divenuto comandante del distaccamento di brigata, quali azioni compie?

«Sabotaggio della linea ferroviaria Torino – Modane (con l’innesco delle bombe che fecero saltare i ponti ferroviari), raccolta di armi e munizioni, coordinamento dei gruppi cittadini e preparazione della liberazione».

Mi racconteresti della marcia da lui organizzata a Torino alla vigilia della liberazione di Torino?

«Le settimane che precedettero la Liberazione furono febbrili. Gli occupanti tedeschi erano prossimi alla ritirata dalla città ma non potevano permettersi una sollevazione popolare immediata, mentre continuavano le azioni di sabotaggio e guerriglia dei partigiani con conseguenti rappresaglie. I rifornimenti di viveri alla città scarseggiavano. Per i partigiani serviva fare iniziative pubbliche, che suscitassero la partecipazione della popolazione e preparassero il sentimento generale per la Liberazione, senza rischiare stragi di civili. Per questo Vito organizzò la marcia delle donne di Borgo San Paolo, intercettando il malcontento (per la mancanza di pane) della popolazione, indipendentemente dalle simpatie politiche. Gli assembramenti erano ovviamente vietati; eppure la folla si disperse da sola. Questa manifestazione cambiò lo spirito della popolazione, aiutò a superare le divisioni tra monarchici, repubblicani, democristiani, comunisti e contribuì molto al clima collaborativo che si instaurò fra tutte le forze di liberazione nazionale nella gestione della città, con un nuovo sindaco (Roveda) ed un nuovo prefetto (Passoni).

Che uomo è stato Vito? Cosa ti ha insegnato? Il ricordo più bello che ti ha lasciato?

«Mi ha insegnato l’importanza di “portarsi il mare dentro”, ovvero di lasciare sempre una parte della nostra esistenza aperta all’eco dell’infinito, al profumo del mistero sull’essere umani, al gusto per la ricerca appassionata della verità, alla tattilità degli altri, senza i quali farsi del bene è impossibile. Ho tanti bei ricordi. Quello più bello – che ha marcato di più la mia vita – è il giorno del suo funerale. Io bambino ero confrontato per la prima volta al tema della morte. Ricordo mia madre che piangeva, mia nonna che camminava barcollando. E poi questa fiumana di gente, per la quale avevano dovuto bloccare la via, il giardinetto pubblico trasformato con tappeto e megafoni per le commemorazioni. I plichi di buste di telegrammi. L’ascensore che s’era guastato e il vicino (il cui appartamento aveva due entrate) che otto ore al giorno teneva aperta casa sua perché la gente potesse almeno salire dalla sua parte, per poi discendere le scale dalla nostra. Quei volti conosciuti, come il calzolaio, il barbiere, il lattaio; tutti che avevano chiuso negozio per venire e che se n’erano fregati delle autorità, dicendo chiaro e tondo che il microfono andava dato anche a loro, perché qui si piangeva uno del loro quartiere, uno di loro. E poi gli sconosciuti, che quasi credevo di dover ricordare constatando- con un’iniziale vergogna- che piangevano più di noi. In quel mare di lacrime calde, scintillanti, vidi riflessa la più grande lezione di mio nonno: una vita ben spesa si riconosce dalla salsedine delle lacrime di chi, con gratitudine, ci piange alla nostra morte e ci fa vivere nel ricordo. Di questo ho ancora oggi conferma: quando incontro qualcuno che ha conosciuto mio nonno, questi immancabilmente mi dice: “Tu devi sapere che tuo nonno era un uomo straordinario, un uomo buono”, per poi raccontare nei dettagli dove e quando si conobbero, quale battaglia fecero insieme. Di nuovo, il poeta Athanasulis lo riassume perfettamente».

Vito è tornato a Barletta dopo la guerra? Ne sentiva la mancanza?

«Barletta gli rimase sempre sotto pelle, per questo non ne sentiva la mancanza, perché non l’aveva mai lasciata. Vi tornava appena possibile e con piacere, per vivere con piena intensità uno “stare” che lo accompagnò sempre».

Ti è capitato di venire a Barletta con tua madre Laura e tuo padre?

«Con minor frequenza di mio nonno, ma anche noi torniamo, anche per noi però c’è un essere a Barletta ovunque noi si sia. Lo sguardo che cerca l’autentico, il gusto per le cose semplici, il cuore c’ha bisogno di magnanimità, il lasciarsi rapire davanti a un raggio di sole, pure l’incazzarsi ma andando a dire in faccia tutto quello che ci rode a una persona senza mai smettere di godere quando il litigio è porta verso una comprensione più grande (in cui ci si perdona l’un l’altro, comprendendosi, abbracciandosi di dentro).

Questa per noi è Barletta: un’icona che motiva, un modo di stare nel mondo che fa assaporare il dono di farne parte e che impegna a migliorarlo ed a trasmetterlo: come i panzerotti fritti o la marmellata al rabarbaro di zia Arcangela, e portando rispetto ai taralli che i cerignolani (una potenza a Torino, con tanto di processione coi buoi della Madonna di Ripalta) garantiscono sempre croccanti».

A cura di Tommaso Francavilla

Si ringrazia il prof. Roberto Tarantino, presidente onorario del Comitato Provinciale Anpi Bat “A. Mascherini e F. Gammarota”.

A seguire, pubblichiamo gli elenchi dei partigiani e soldati barlettani caduti e dispersi durante la guerra di liberazione.

militari e partigiani barlettani