Abbiamo incontrato Antonio Bernardini, un barlettano eccellente che ha portato in giro per il mondo il cuore barlettano, ma soprattutto ha portato il mondo a Barletta: una carriera straordinaria, trentotto anni nel Servizio Estero Italiano e quindici nella diplomazia multilaterale a New York, Ginevra, Roma, Parigi. Dal 2020 è rappresentante permanente d’Italia presso le Organizzazioni Internazionali a Parigi. Si è occupato di questioni politiche, economiche, di sviluppo, commerciali, ambientali, culturali. Nel 2013 diventa vice segretario generale del Ministero degli Affari Esteri e nel 2016 è nominato Ambasciatore d’Italia in Brasile e in Suriname fino al Gennaio 2020. Bernardini sarà uno degli speaker del TEDxBarletta, organizzato il prossimo 3 settembre presso il Castello della città.

Ambasciator Antonio Bernardini

Uno speaker più adatto per il TEDxBarletta non potevano trovarlo: oggi più che mai, ci serve una lettura chiara e precisa su cosa sta succedendo nel mondo. La Russia e la Cina stanno sconvolgendo quell’ordine internazionale che si era venuto a creare dopo la Seconda Guerra Mondiale.
«Sarebbe bello poter essere chiari e poter dire che cosa avverrà: nei fatti nessuno lo sa. Sappiamo che siamo in un momento molto importante di trasformazione delle società e della realtà internazionale, quindi questo tema del TEDx dedicato alla “tensione” (tema chiave dell’evento), dove la tensione è un titolo particolarmente calzante per la situazione che stiamo vivendo. Ci sono trasformazioni epocali che stiamo affrontando, parliamo dei cambiamenti climatici, rivoluzione energetica, transizione digitale, migrazioni, tutte cose che stanno profondamente mutando la realtà attuale e c’è anche una realtà internazionale in grande movimento con le tensioni internazionali alle quali stiamo assistendo. L’unica cosa certa è che la situazione è in grande movimento, incertezza, evoluzione, quindi bisogna governare questi cambiamenti nel modo migliore possibile, cercando di assicurare un futuro degno, prospero e pacifico per le prossime generazioni. Sembra una banalità, ma una delle cose che secondo me è più rilevante oggi, per la mia generazione guardando le nuove generazioni, è assicurare che quel periodo così lungo che abbiamo vissuto di pace, crescita economica, benessere, miglioramento delle condizioni della vita possa essere una cosa riservata anche alle future generazioni e non una parentesi felice tra periodi negativi. Questo potrebbe sembrare un discorso pessimista sul futuro, invece non lo è: è vero che ci sono delle incertezze, ma è anche vero che bisogna governare i cambiamenti, questa è la grossa sfida. Siamo al centro di un cambiamento epocale, di trasformazioni che devono avvenire in un periodo limitato di tempo. Non c’è, forse, nella storia dell’umanità nessuna generazione che si è posta l’obiettivo di cambiare le cose tanto rapidamente per salvare se stessa e il pianeta. Questa è una cosa che va vissuta non come un incubo, ma al contrario come una sfida positiva, perché se governata nel modo migliore i benefici possono essere enormi».

Lei è un egregio rappresentante della diplomazia: ma la guerra non è l’esatto opposto?
«Certamente lo è. La guerra è una sconfitta non soltanto della diplomazia, ma una sconfitta per l’umanità. Quando i paesi ricorrono alla guerra, sicuramente è una sconfitta per tutti. La diplomazia è uno strumento che gli stati hanno per mitigare a livello internazionale, per smussare, per evitare che le tensioni degenerino, e quando degenerano per cercare di riallacciare i rapporti. Certamente la guerra è una sconfitta per la diplomazia, ma ripeto non soltanto per essa».

Qual è il suo legame con Barletta? I suoi figli sono cresciuti nei diversi Stati del mondo: quanto importante, secondo lei, il legame con il proprio Paese d’origine? Cosa pensa della definizione di “cittadino del mondo”?
«Molto interessante come domanda, perché ho un’idea molto precisa su questo. Innanzitutto ho mantenuto il legame con la mia città di origine anche se sono andato via ormai da parecchi decenni, però sono sempre tornato ed ho sempre tenuto a questo legame. E dico sempre ai miei amici e quelli che mi chiedono delle mie origini che è un piacere enorme poter tornare nella propria città, sedersi ad un tavolino di un bar e senza fare una telefonata ritrovare gli amici del liceo e parlare come se ci fossimo lasciati il giorno prima. E questo è quello che avviene ed ha un valore inestimabile. Tuttavia, mi piacerebbe vedere una città in grado di fare dei passi in avanti; non sempre è così! È vero che questo lavoro non si poteva fare a Barletta, quindi ho girato il mondo, i miei figli sono nati nei paesi dove stavo lavorando, mio figlio in India e l’altra in Svizzera, non a Barletta, però credo che nel mondo bisogna starci guardandolo da un punto di vista. Non credo all’idea di essere “cittadino del mondo” come un diluire il proprio modo di vedere e di essere in una sorta di universalismo vago, ma preferisco l’idea di essere “cittadino del mondo” guardandolo con le mie idee, con la mia visione e con il mio modo di immaginare e concepire come devono essere i rapporti con gli altri, come deve funzionare la società. Quindi da questo punto di vista io ho sempre cercato di fare in modo che i miei figli potessero assorbire e avere queste radici nella loro crescita, per cui siamo tornati sempre in Puglia, perché volevo che non fosse soltanto la Puglia o Barletta la città di origine dei propri genitori, ma fosse un legame importante per loro per poter essere nel mondo, identificando se stessi con un territorio. E questo che ho portato per il mondo, partendo da quelle erano le mie radici, la mia cultura, il mio radicamento alla realtà. È importante valorizzare la propria identità in un mondo globalizzato».

Lech Walesa, premio Nobel per la Pace, leader di Solidarnosc, già presidente polacco, premiato a Barletta dieci anni fa, disse che per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa ci sarebbero voluti alcuni decenni, passando per la creazione di una politica estera comune e di una difensiva. Cosa ne pensa.
«La costruzione europea è un percorso che abbiamo iniziato 65 anni fa con la firma del Trattato di Roma. Credo che la guerra e i momenti di crisi siano sempre grossi momenti di strappo, in cui certi processi discussi a lungo, subiscono delle accelerazioni a cui bisogna trovare una risposta, e di fronte alla crisi del ritorno della guerra in Europa, l’idea di una politica estera comune e di una difesa comune ha ripreso vigore. L’idea non è nuova, improvvisamente ci rendiamo conto di quanto questo diventi rilevante. Abbiamo visto una quantità di Paesi che vogliono aderire all’UE, vogliono diventare membri NATO e tutto questo dovrebbe far riflettere. Come mai Paesi che non lo sono mai stati improvvisamente scoprono questo grande valore di essere parte di un gruppo di Paesi che aderisce agli stessi valori e che ha delle politiche comuni? Comprendono il grande vantaggio che c’è nel non essere isolati, nel condividere i progetti, nel condividere le idee e nel far parte del progetto comune. Questa parte della politica estera comune e della difesa comune è ancora inespressa, dove l’Europa ancora fa fatica a fare quei passi in avanti necessari però sono proprio queste situazioni di crisi che determinano e mostrano la inevitabilità di un progresso in quella direzione. Se noi non fossimo in questo sistema di alleanze, se non fossimo nell’UE, staremmo meglio o peggio? Questa domanda credo che sia assolutamente necessaria. È necessaria adesso che siamo passati attraverso due grandi crisi, il COVID e ora la guerra. Saremmo stati infinitamente peggio. Il fatto di far parte di questi grandi progetti, ci ha dato vantaggi enormi: l’accesso a risorse, l’accesso a condividere con altri paesi scelte, opportunità, ci ha dato la possibilità di resistere e di assicurarci che la nostra sicurezza non fosse messa a rischio. Quindi ci sono dei valori grossi nell’attività anche diplomatica internazionale, nelle scelte che il Paese ha fatto, che sono importanti quando guardiamo il futuro».

Sono dunque inevitabili gli Stati Uniti d’Europa, sono scritti nel nostro destino?
«Ci sono alcuni Paesi che hanno deciso di uscire da questo progetto, come la Gran Bretagna. Questo progetto è nato dopo due guerre mondiali e dopo secoli di guerre sul continente europeo, con l’idea di porre fine a questa straziante storia che l’ha caratterizzata. Personalmente ritengo che ci siano alcuni aspetti della costruzione europea che possono essere discussi per capire se le scelte che abbiamo fatto siano giuste o meno, a partire dall’architettura istituzionale, però questo dato di fatto fondamentale, cioè aver fatto una scelta per non ripetere gli errori del passato, per non tornare in situazioni di conflitto e di guerra, è una scelta fondamentale. Noi ci siamo messi insieme in questo progetto comune perché avevamo un problema politico fondamentale, dovevamo uscire dalla guerra, dovevamo uscire dalla situazione che aveva caratterizzato il nostro passato, ci siamo riusciti, da questo punto di vista il progetto è riuscito e oggi quando uno vede che alcuni paesi fanno la scelta di uscire si deve porre il problema se questa è una scelta ispirata da motivi economici o una scelta politicamente fondata, perché quelle esigenze che avevano portato tutti a stare insieme siano sparite. Adesso il dibattito non è soltanto un dibattito inglese, anche in Italia c’è un dibattito tra quelli che credono e quelli che sono contrari alla scelta europea, però ripeto, il punto fondamentale, il punto di partenza è che ci siamo messi insieme per mettere la parola fine alla guerra, ai contrasti del passato, vogliamo fare una scelta diversa? Certo siamo liberi di farlo. C’è un costo e ci sono dei rischi. Dobbiamo essere sicuri che una scelta diversa possa superare i vantaggi che abbiamo conosciuto in questi decenni di percorso comune in Europa».

Suo padre è stato sindaco di Barletta nei primi anni ‘80
«Mio padre avrebbe compiuto 100 anni quest’anno. Lui è stato prima assessore per molti anni. Quella era un’altra stagione della politica, il dopoguerra, il ruolo dei partiti era molto forte. Mio padre, Borraccino, Paparella, queste personalità animavano il Corso Vittorio Emanuele, che era la strada dove c’erano le sedi di tutti i partiti politici. Il dibattito tra i leader politici era completamente diverso da quello di oggi, le sedi di partito erano dei luoghi d’incontro per discutere la politica. Le sedi di partito non esistono più perché la gente non va più ai partiti a discutere. L’amministrazione è molto diversa. Quella era la generazione che, finita la guerra, si è trovata con la necessità di dover ricostruire le città e il Paese e l’ha fatto. La polemica politica era molto forte, però non scadeva come alcune volte scade adesso. La lotta politica era dura, ma c’era anche una grande selezione della classe politica, per chi entrava nei partiti per poi arrivare a degli incarichi pubblici, passando attraverso un percorso selettivo-formativo importante. Le scuole di partito erano delle vere e proprie scuole e non è che si diventava dirigente di partito perché si è andati su internet, si è messa la fotografia accattivante e tutti quanti hanno deciso che potevi fare il leader di una formazione politica, era un percorso più complesso; c’erano le correnti di partito, c’era la ricerca del consenso, ma era un modo completamente diverso di fare politica rispetto a quello che è oggi».

Il TEDX parla soprattutto ai giovani: quali le principali riflessioni che vorrà sottoporre quest’anno nel suo intervento?
«Partirò da un esame di quelli che sono i megatrends, le grosse trasformazioni in atto nella società per parlare di come queste mega trasformazioni sono poi influenzate da eventi improvvisi, che nessuno è in grado di prevedere (il covid e la guerra), per poi arrivare a una questione fondamentale che è quella che stiamo vivendo nelle democrazie, che si chiama crisi di fiducia nelle democrazie, che è un fenomeno importante che riguarda non soltanto l’Italia ma tutte le società democratiche: oggi c’è una grossa sfida tra democrazie e autocrazie. La democrazia ha il compito e la grossa sfida di dimostrare che è un sistema migliore (lo è!), ma anche di dimostrare che è un sistema che non collassa e che riesce a garantire un futuro migliore alla propria popolazione. In tutto questo c’è un messaggio molto importante che credo va ricordato ed è l’esempio di Greta Thunberg, questa ragazza svedese che con la sua partecipazione e il suo impegno è riuscita ad imporre all’attenzione dei governi del mondo il problema dei cambiamenti climatici. Quest’esempio della partecipazione, di essere parte dei processi, di governare i cambiamenti, di essere parte di questa immensa e bellissima sfida di trasformazione che stiamo vivendo è il messaggio che spero di lanciare. Siamo in un mondo attraversato da molti conflitti e tensioni, ma la cosa bella è che è una sfida che possiamo vincere. Vorrei concludere con una massima, secondo alcuni di Confucio, secondo altri di Mao Zedong: “grande è il disordine sotto il cielo, la situazione dunque è eccellente”. È così, il disordine che viviamo è notevole però le opportunità sono tante e sta a noi cogliere queste opportunità e cambiare il mondo nel modo miglioreۛ».