Gianluca Crudele, in arte Barlo, appassionatissimo di arte e di disegno, ha coltivato sin da adolescente la passione per la street art e il graffitismo per le strade barlettane. Oggi sono molteplici le sue opere collocate fra Italia, Hong Kong e New York. Dopo un percorso di studi in design, prima presso il Politecnico di Milano e poi presso la Nottingham Trent University, adesso vive ad Hong Kong dove lavora come artista, ilustratore e graphic designer.

Cominciamo dalle cose semplici, come mai il nome Barlo?

«Il nome deriva ovviamente dal mio essere barlettano. È nomignolo che mi è stato dato da amici durante i miei studi a Milano e adesso lo uso con una certa fierezza per ricordare sempre a me stesso da dove vengo.»

Dopo una breve esperienza a Londra, oggi vivi e lavori a Hong Kong. Ci spieghi di preciso di cosa ti occupi e quanto la tua passione è stata utile nel lavoro che svolgi?

«In realtà tutto è partito dai graffiti. Quando ho finito il Liceo ero in un momento di grande attività in strada e cominciavo a sviluppare una certa abilità. I risultati conseguiti in strada mi hanno dato la determinazione per intraprendere un percorso di studi creativo. Il design però è una pratica molto diversa da quella artistica e difatti per tutta la durata degli studi universitari avevo quasi completamente smesso di dipingere, trovando nel design la maniera di esprimere le mie pulsioni creative. Quando ho cominciato a lavorare ad Hong Kong mi sono però scontrato con una pratica molto distante dal mio ideale di design che ad un tratto è diventato insufficiente per dare voce alle mie pulsioni creative. Così ho ripreso in mano gli spray, per poi passare a rulli e pennelli, e mi sono rimesso a dipingere. Adesso, di fatto, lavoro come designer di giorno e pittore tutto il resto del tempo, includendo notti e weekend. Spesso poi le cose si sovrappongono e credo che le mie abilità da illustratore siano state fondamentali nella realizzazione dei miei migliori lavori di design».

La concezione della street art è molto cambiata nel corso del tempo. In passato questa forma di arte era considerata un atto vandalico. Oggi si dipinge molto anche nelle grandi città consentendo alle periferie di essere rivalutate. Quanto hai vissuto questo cambiamento e come è cambiato il giudizio degli altri e degli artisti su questa forma d’arte?

«In principio c’erano i graffiti, ovvero un linguaggio visivo basato sullo scrivere il proprio nome. Col tempo alcuni writer hanno cominciato a trovare alcune “regole” dei graffiti limitative e hanno iniziato a sviluppare forme e stili più originali e slegati da qualunque sottocultura specifica. A questa pratica è stato dato il nome, assolutamente commerciale, di street art. Oggi è assolutamente normale vedere festival di street art spuntare in ogni angolo del mondo creando opportunità di dipingere muri dalle dimensioni prima impensabili. Quanto alla riqualificazione delle periferie non ci credo molto. Ci sono festival che nascono dal basso e mantengono un forte legame col territorio arricchendolo, altri che sono semplicemente frutto della moda. Fatto sta che oggi la street art rappresenta il punto di ingresso di molti artisti “dal basso” nel mondo delle gallerie, diventando, di fatto, un mestiere. Finché vivevo a Barletta la cosa non mi toccava particolarmente, adesso è un discorso al quale devo stare più attento. Alcuni artisti credono che ciò significhi svendersi, per come la vedo io tutto dipende dal modo di lavorare di ogni singolo artista sia in termini stilistici che di scelte di “carriera”».

Nei tuoi dipinti prediligi soprattutto elementi naturali e mitologici con una forte influenza asiatica. A cosa è dovuta questa scelta?

«Come dicevo, quando sono arrivato a Hong Kong avevo completamente smesso di dipingere ma, a parte la noia della pratica da designer, sono stato anche investito da una serie di stimoli assolutamente nuovi che reclamavano il loro spazio. Dapprima mi sono concentrato su elementi della mitologia cinese e poi sulla città in se. Uno che non è mai stato a Hong Kong la immagina come una giungla urbana di grattacieli. Si tende invece a sottovalutare come questa giungla urbana sia totalmente immersa nella giungla vera. Cercando posti dove dipingere mi sono trovato ad esplorare gli angoli più diversi di questa città. In particolare le fabbriche abbandonate, sicuramente le mie location predilette, molte delle quali sono state reclamate dalla giungla in un misto tra archeologia industriale e templi alla Indiana Jones. La fascinazione verso la natura si è introdotta gradualmente nella mia produzione fino a diventarne un fulcro. Hong Kong è un osservatorio perfetto per riflettere sull’uomo contemporaneo, sul suo modo di costruire orientato al “real estate” e sul mistero della natura che reclama il suo ruolo nell’equilibrio delle cose».

A inizio maggio sei stato a New York per ritirare un premio per il progetto grafico della “Pizza Hut Blockbuster Box”. Ci spieghi in cosa consiste?

«Il progetto per Pizza Hut è uno di quei casi in cui la mia pratica di designer e illustratore si sono sovrapposte. Ogilvy&Mather, che ad Hong Kong è gemellata con l’agenzia di design per cui lavoro, ci ha approcciati per sviluppare il progetto grafico di un packaging in edizione limitata per Pizza Hut. L’idea geniale è stata di inserire una lente sulla scatola di pizza e, posizionando uno smartphone al suo interno, trasformarla in un proiettore. Mente sviluppavo il design della scatola ho proposto di utilizzare una serie di 4 illustrazioni, realizzate da me con 3 amici illustratori con base ad Hong Kong, che rappresentassero diversi generi di film: Horror, fantascienza, Rom-com e Azione. Alla fine tutti i pezzi sono andati a combaciare perfettamente andando a creare un bel prodotto. È stato molto divertente perché di giorno lavoravo in ufficio al design e di sera mi concentravo sull’illustrazione. Alla fine il mio nome è finito nei credit due volte, una come Gianluca Crudele il designer, e l’altra come Barlo l’illustratore. Quasi uno sdoppiamento di personalità. Il progetto ha conquistato diversi premi di design, il più prestigioso dei quali è stato il One Show a New York che ci ha dato un argento in packaging design e un bronzo in illustrazione. È stata una bella scusa per andare a New York!».

E visto che c’eri hai anche dipinto un muro nel Bronx…

«Sì. La cosa più bella di questo mondo di “strada” è che tutti, più o meno, conoscono tutti. Quindi, ho chiesto ad un paio di amici se conoscessero qualcuno di lì che mi potesse aiutare a trovare un muro da dipingere. Il giorno dopo la premiazione ho cambiato totalmente veste e mi sono imbarcato nell’impresa di dipingere questo muro 7x7m in 3 giorni! L’esperienza è stata fantastica, e la gente del quartiere ha apprezzato il lavoro, cosa sempre importante visto che loro di li ci passeranno tutti i giorni. Inoltre era il mio sogno adolescenziale quello di dipingere nel Bronx, uno dei luoghi natali della cultura dei graffiti».

Alcuni dei tuoi graffiti non hanno un significato ben definito e necessitano di un’attenta analisi per poter essere compresi. Quali messaggi vuoi trasmettere con le tue opere? Hanno anche un carattere politico?

«Io credo che quando dipingi in strada il contesto è fondamentale. Piuttosto che lasciarmi guidare esclusivamente dal mio ego, cerco sempre di leggere qualcosa di interessante nel posto in cui dipingo e in qualche modo restituirlo nel lavoro. Alle volte succede che le location si prestino a messaggi politici. Ad esempio il mio ultimo lavoro è stato realizzato nel retro di un bar storico di Hong Kong, famoso per le sue posizioni politiche antigovernative. A seguito di una ispezione dal retrogusto politico il locale si è trovato privato della propria cucina alla quale è stato rimosso il soffitto per via di un abuso edilizio fatto oltre 30 anni fa – e considera che il bar è li da 20. Ne è risultato una specie di cortile sul retro. Il titolare mi ha chiesto allora di lavorare in questo spazio e di dipingere qualcosa che in un certo senso fosse una risposta al torto subito. Alla fine ho ridipinto tutta la stanza, pavimento incluso, reinterpretando il mito del “Mondo Capovolto”, un luogo mitologico del folklore popolare in cui le parti si ribaltano e i tiranni trovano la giustizia che meritano. Alla fine i miei riferimenti politici sono sempre velati, metamorfosati in qualcos’altro, ma va bene così perché non provo alcun interesse nel dipingere le cose così come sono».

L’arte del writing è una delle quattro discipline della cultura hip hop. La tua è una passione prettamente artistica, o credi anche nei valori di fratellanza e rispetto che l’hip hop vuole trasmettere?

«Credo che partire da qualcosa che fosse autentico e vicino alle origini sia stato importantissimo. Impari a stare per strada, a capire come comportarti per evitare problemi e incontri un sacco di persone interessanti che ti aprono gli occhi su quante maniere ci siano di stare al mondo. Io però non ho mi sono mai sentito davvero parte di quella cultura e inevitabilmente mi sono poi spostato su un mio percorso artistico personale. Ho però un debito nei suoi confronti, tanto dal punto di vista visivo quanto da quello musicale – perché non si vive di sola pittura».

E invece che pensi della scena attuale hip hop e, più specificamente, dei graffiti a Barletta?

«Noto con piacere che dal punto di vista musicale è tutto ancora in movimento e mi ricordo alcuni dei membri della Savana Crew quando erano giusto agli inizi, più o meno nel mio stesso periodo. Quanto alla scena pittorica, quella non ha avuto un grande seguito. I miei amici che dipingevano, a parte Rizek e Poke, hanno tutti fondamentalmente smesso, probabilmente prima che una nuova generazione potesse veramente essere assorbita in questa pratica. Quello che mi auguro, piuttosto che vedere graffiti in stile newyorkese, è che qualcuno si cimenti nello sviluppare un linguaggio personale più vicino alle specificità della nostra terra che, sono sicuro, potrebbe portare a sviluppi molto più  interessanti».

http://mrbarlo.com