Entrando nel Borgo di Montaltino da via Barletta, si nota sin da subito la presenza di alcuni elementi detrattori che corrompono la tradizionale atmosfera rupestre di questo paesaggio. Tra questi, vi è un grande complesso residenziale rimasto incompiuto, abbandonato nel 2011, prima della fine dei lavori di costruzione, e tutt’oggi degradato.

Dopo aver giudicato abusiva la lottizzazione di questi terreni, tale area è stata sottoposta al sequestro finalizzato alla confisca con relativo ordine di demolizione. Ma dieci anni dopo tale sentenza è stata ribaltata, con assoluzioni e prescrizione di reato, motivo per cui è stato poi disposto il dissequestro con la relativa restituzione dei manufatti edilizi agli aventi diritto.

Al di là dell’indiscutibile fondatezza di questi procedimenti giudiziari, è comunque lecito notare come questa incostanza – e il relativo immobilismo che ne è conseguito – siano figli della mancanza di una visione chiara e strutturata del territorio comunale di Barletta (ovvero, ancora una volta, dell’assenza di un Piano Urbanistico Generale). Questo approccio continua a ledere lo sviluppo territoriale e paesaggistico di molte aree cittadine.

Ad ogni modo, travalicando le contingenze e aprendo a una riflessione di carattere più in generale, le villette abusive (o ex-abusive) di Montaltino possono intendersi come un paradigmatico esempio della “minaccia di amousia“ che incombe sul nostro mondo: un mondo in cui la burocrazia vince sull’estetica, l’etica e la logica; in cui i valori economici sovrastano le reali necessità e possibilità inscritte nel corpo fisico, culturale e sociale di un territorio; in cui le decisioni vengono prese su fogli di calcolo e attuate mediante normative palesemente obsolete.

Quello di Montaltino è dunque un caso emblematico di una forma di negatività con la quale la contemporaneità è sempre più spesso chiamata a dialogare. La vera domanda che questo contesto sembra proporci è infatti quella di ritrovare un senso allo scarto, al residuo, al frammento, a questi spazi indecisi che ormai ci circondano da tutti i lati.

Ecco perché Massimiliano Cafagna e Francesco Delrosso hanno deciso di costruire un dialogo fotografico impostato sulla loro visione soggettiva, proponendo le proprie interpretazioni dell’area su cui insiste la lottizzazione di Montaltino.

Nel loro lavoro si evince sia la volontà di adottare diversi sguardi per interpretare queste realtà marginali, sia quella di attribuire allo scarto la stessa dignità offerta all’opera d’arte.

L’occhio di Massimiliano restituisce l’atmosfera generale dei luoghi, mettendo a fuoco il rapporto delle singole cose costruite con l’ambiente circostante, caratterizzato soprattutto dalla presenza della natura. Il suo atteggiamento contemplativo è prevalentemente etico giacché cerca di denunciare e valutare la povertà di senso dei luoghi, intuendo poi, nelle relazioni tra gli oggetti e l’ambiente, la flebile presenza di potenziali significati nascosti. D’altronde la vegetazione è sempre lo “sfondo” che tiene insieme le architetture decadenti, le cui uniche qualità sono quelle che le consentono di diventare “figure”: la compattezza delle masse e la stereotomia dei volumi taglienti disposti con diverse giaciture.

Persa ormai la loro funzione primaria, queste strutture sembrano offrirsi come possibili sostegni per permettere agli arbusti di arrampicarsi e crescere in altezza, trasformandosi in grandi serre di biodiversità autoctona e spontanea.

L’occhio di Francesco restituisce invece una disattesa profondità semantica nella lettura dei dettagli. Questa volta si tratta di un atteggiamento contemplativo prevalentemente estetico, in quanto estremamente soggettivo. I suoi dittici combinano le scritte tracciate col lapis dagli operai, sui muri di un cantiere abbandonato, a dettagli messi a fuoco con l’immaginazione: forme pure ritrovate come frammenti all’interno di sistemi informi di rovine; figure, profili, sagome e proiezioni d’ombra che, solo se viste da precise angolazioni, appaiono assolute e astratte; stratificazioni murarie lette come ferite ancora aperte su corpi edilizi “non finiti”, in cui si percepisce ancora vivida la gestualità dell’artigiano costruttore.

La sequenza di queste immagini produce un intreccio di catene espressive che porta ad accrescere il senso possibile di questi spazi di scarto: a perderlo nell’insieme e a ritrovarlo nei frammenti, e poi viceversa, forse all’infinito. Da un lato, la lettura del contesto costruisce una conoscenza d’insieme – ambientale – dei luoghi, che paradossalmente ne decostruisce il senso. Dall’altro, la lettura dei dettagli decompone l’insieme in singoli frammenti privi di senso reale, ma li inserisce in una visione onirica densa di figuratività astratte e primordiali, ovvero densa di contenuti semantici.

Questa indagine si muove come un doppio pendolo tra costruzione e decostruzione, restando nell’ambiguità, come peraltro ambigua è la realtà dei luoghi indagati. Tale indagine scava nell’informe per ritrovare o forse reinventare, senza alcuna pretesa di veridicità, i brandelli di nuovi significati potenziali, figli della nostra comune ricerca di “un nuovo sentire”.