A cura di Stefania Ricatti
Nato sulla scorta dei fatti del G8 di Genova, il Collettivo Exit di Barletta combatte dalla sua fondazione gli effetti più nocivi della globalizzazione, come l’inquinamento e l’aumentare delle diseguaglianze nel mondo. I suoi membri appoggiano le cause dei popoli oppressi, prestando di persona aiuto e sostegno. In particolare si sono recati presso il confine turco-siriano, per sostenere la popolazione curda, che subisce repressioni da più di 40 anni in Iraq, Siria, e soprattutto in Turchia. In occasione del fallito colpo di Stato in Turchia, che potrebbe cambiare la situazione interna del Paese e il piano delle relazioni internazionali, abbiamo intervistato due membri, Angelo e Alessandro, per saperne di più.
In quale contesto politico e sociale si inserisce il colpo di stato del 15 luglio?
«La Turchia ha una lunga tradizione di colpi di stato, organizzati, almeno formalmente, per difendere gli ideali laici di Ataturk, il fondatore dello stato turco moderno. Il regime instaurato da Erdogan è un regime dittatoriale di stampo fascista, in cui vengono calpestati costantemente i diritti umani; i giornalisti di opposizione sono accusati di alto tradimento e arrestati. Erdogan fomenta e arma l’Isis e ha messo in atto un massacro nei confronti della minoranza curda presente nel paese. Inoltre, il sistema di elezioni è fortemente antidemocratico, e va a indebolire in particolare l’HDP, ovvero il partito democratico del popolo».
Avete auspicato la riuscita del colpo di stato ad opera dei militari?
«No. Il governo di Erdogan e un governo militare sono due facce della stessa medaglia, e siamo convinti che il fascismo non si combatta con il fascismo. La repressione nei confronti delle minoranze sarebbe stata operata anche dai militari, perché il piano politico mira all’annientamento. Noi pensiamo che il regime dittatoriale possa essere abbattuto attraverso un processo popolare e democratico».
Il golpe fallito ha suscitato subito dei dubbi. Credete che l’ipotesi di un golpe organizzato dallo stesso Erdogan sia plausibile?
«È un’ipotesi che non possiamo escludere del tutto. Causa sospetto il fatto che il golpe sia durato solo poche ore e che nelle ore successive Erdogan sia riuscito a liberarsi di un numero ingente di oppositori. Ma è ancora troppo presto per poter esprimere un’opinione».
Quali sono le conseguenze di questo avvenimento?
«Sicuramente sul piano nazionale Erdogan ha assunto maggiore potere, avendo l’occasione di liberarsi di qualsiasi ostacolo alla sua linea politica, e potrebbe riuscire a trasformare la repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale, ottenendo tutti i poteri. Ma aver foraggiato jihadisti in Siria e in Iraq lo rende debole dal punto di vista internazionale. Questa nazione si trova in una posizione nevralgica, fungendo da cerniera tra Oriente e Occidente, la situazione è molto delicata. I rapporti tra Unione Europea e Turchia si stanno incrinando, e anche il ruolo degli Stati Uniti, grandi alleati di Erdogan, è ambiguo. C’è un raffreddamento dei rapporti internazionali che potrebbe cambiare gli equilibri vigenti fino ad ora».
Cosa ne pensate del popolo che è sceso in piazza per difendere il governo di Erdogan? Pensate che abbia espresso un reale consenso o che fosse guidato dalla paura?
«È paradossale il fatto che i social network, a lungo censurati da Erdogan, siano stati il canale utilizzato per incitare la popolazione alla resistenza. Il consenso al regime proviene prevalentemente da parte della popolazione islamista, ma probabilmente in piazza c’era anche gente che non appoggia Erdogan e che ha voluto opporsi a un regime militare. Tuttavia il consenso che la popolazione ha dimostrato quella notte può venire meno da un momento all’altro. L’economia è fortemente in crisi, e ciò potrebbe provocare un’esplosione sociale. Non dimentichiamo che la popolazione turca è molto giovane, e i giovani possono avere un ruolo fondamentale nell’apportare cambiamento».




































