Fondamentale per comprendere al meglio il fenomeno migratorio in atto, è conoscere da vicino i racconti del “viaggio”, chiarendoci che è la disperazione a spingere questi uomini a delle scelte terribili, che coinvolgono loro stessi e anche le loro famiglie, ben sapendo che potrà andare a finire male. Molto male per alcuni, trasformando il Mar Mediterraneo in un cimitero in questi ultimi anni, meglio per altri. Per fortuna questo è il caso dei protagonisti della nostra storia Alì (il padre) e Ahmed (il bambino), collegando direttamente la città di Barletta con le storie delle migrazioni siriane. Una famiglia con due bambini bellissimi, di sei e due anni e mezzo, raccontataci dal padre ventottenne.

Quando e perché hai deciso di lasciare la Siria?

«Quando si è scatenata la guerra in Siria, non avevi possibilità di rimanere neutrale, fuori dal conflitto: dovevi stare con l’uno o con l’altro. Avendo moglie e figli non ho avuto alternativa che partire. Ho lasciato la Siria nel 2013 alla volta della Turchia, dove sono stato per circa un mese, poi un altro mese lo abbiamo trascorso in Egitto e infine in Libia, dove sono stato un po’ più di tempo finché non la situazione politica è peggiorata, così sono stato costretto a decidere di affrontare il mare con la mia famiglia. Ci ho messo più di un mese per decidermi: in Libia sono note le zone in cui poter contattare dei trafficanti per la traversata».

Siria, Turchia, Egitto, Libia e poi Italia per mare: come hai viaggiato in tutto questo periodo?

«Quando sono partito dalla Siria con un passaporto regolare su cui era scritto studente, gli spostamenti in Turchia e in Egitto sono stati più semplici per noi profughi siriani, vista la situazione nel nostro Paese. Probabilmente siamo stati favoriti in quel particolare momento storico. Ho, certamente, dovuto pagare per il viaggio sia prima che dopo la Libia; in Libia anche nei caffè ci sono questi trafficanti, riconoscibili facilmente, che ti usano come merce anche rivendendoti ad altri trafficanti, come nel nostro caso».

L’esperienza più traumatica è stata sicuramente quella della traversata in mare dalla Libia.

«Siamo partiti dalle coste libiche su quattro barche: quella su cui viaggiavamo noi, la più grande, c’erano circa 200 persone, le altre, più piccole (lunghe 3 metri), con mediamente 30 persone a bordo. Tutti siriani. Al momento dell’imbarco gli accordi cambiano: con le armi in pugno ti obbligano a salire, vuoi o non vuoi. Siamo stati in mare per diversi giorni senza alcun punto di riferimento all’orizzonte; il nostro barcone era così appesantito che l’acqua arrivava a filo con il bordo, facilmente poteva rovesciarsi. Di notte faceva freddo, e di giorno il sole batteva fortissimo con temperature di 35°- 40°; c’è stato un momento, durante la traversata, in cui lo sconforto e il pianto hanno preso il soppravvento, quando ci hanno raggiunto alcune imbarcazioni libiche, ci hanno privati di qualunque cosa, hanno sparato contro le nostre barche e una di queste ha iniziato ad affondare, nella totale noncuranza di questi».

È allora che tuo figlio ha iniziato ad avere i primi problemi?

«Mio figlio più piccolo che allora  aveva meno di un anno ha iniziato a respirare con difficoltà, provato dal viaggio.  Inoltre, la pelle delicatissima di un bambino piccolo aveva subito delle ustioni considerevoli a causa del sole. Nessuno a bordo poteva fare niente, vista la precaria situazione in cui ci trovavamo; alla situazione disperata si è aggiunto il senso d’impotenza di aiutare mio figlio sofferente, questa è la cosa peggiore che può vivere un padre».

Da chi siete stati soccorsi e come?

«Siamo stati recuperati da una nave di salvataggio italiana: prima hanno preso le donne incinte e i bambini (tra cui i miei) e poi sono tornati a recuperare tutti gli altri. La nave di salvataggio era affollatissima, dunque anche a bordo di questa le condizioni non erano delle migliori, al limite. Dopo ancora tre giorni in mare, siamo sbarcati in un porto italiano, credo della Sicilia. Per me l’Italia rappresenta la salvezza. Dunque, se penso all’atteggiamento dei libici e alla grande accoglienza italiana, non ci sono paragoni e ancora di più sono grato agli italiani».

Cosa c’entra Barletta nella tua storia? Dove siete ora, è perché sei tornato?

«Dopo un primo soccorso in Sicilia, siamo saliti su un pullman con destinazione Roma, ma presto una ragazza di nome Valentina ha capito la gravità di mio figlio e ci ha indirizzati verso l’ospedale di Barletta. Qui è rimasto per 15 giorni ricoverato. Dopo questo periodo, grazie alle cure dei medici barlettani, è guarito completamente e ora sta benissimo e ha due anni e mezzo. Secondo gli accordi tra i Paesi europei, quelli che c’erano allora, siamo stati assegnati al Lussemburgo, dove ci siamo trasferiti. Oggi siamo tornati a Barletta per ringraziare tutte quelle persone che ci hanno aiutato in quel drammatico periodo, che per me sono ormai come familiari».