«Sono sospese le attività di palestre, piscine, centri natatori, centri benessere, centri termali, fatta eccezione per l’erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza, nonché centri culturali, centri sociali e centri ricreativi; ferma restando la sospensione delle attività di piscine e palestre, l’attività sportiva di base e l’attività motoria in genere svolte presso centri e circoli sportivi, pubblici e privati sono consentite nel rispetto delle regole sanitarie»: una firma che è arrivata puntuale il 25 ottobre 2020 da parte del Presidente Giuseppe Conte e che ha sortito da un lato consensi, dall’altro molto malcontento. Sempre più incalzanti e severe le disposizioni ministeriali, al fine di arginare ancora una volta un numero (di nuovo) troppo alto di contagi da Covid-19, che si sta diffondendo a macchia d’olio. Ma la chiusura delle palestre era imprescindibile? Ne parliamo con Davide Dibitonto, titolare della Total Wellness personal training.

«La nostra categoria è stata il capro espiatorio di una situazione che andava gestita meglio nel periodo pregresso. Parlo per me ma credo che il mio discorso possa valere per tutti i miei colleghi. Abbiamo portato avanti un lockdown dal 9 marzo al 25 maggio consapevoli che questo sacrificio avrebbe salvaguardato la collettività, ma che è stato vanificato subito dopo la quarantena da eventi, DJ set, da un ritorno alla normalità un po’ troppo rapido e irresponsabile. So che si parla di salute pubblica e di pandemia, ma nel contempo noi ci siamo adoperati per avere gli spazi necessari e tutti gli strumenti utili per salvaguardare la salute di tutti e fare attività in piena sicurezza. Ci siamo attrezzati di dispenser, termoscanner, igienizzanti per le mani, abbiamo provveduto a far mantenere il distanziamento di 2 metri fra gli utenti, nel pieno rispetto delle regole, ma non abbiamo riscontrato la stessa capillare attenzione nella vita di tutti i giorni. E noi ne stiamo pagando le conseguenze».

Parole che non nascondono amarezza e una patina di incredulità, nella piena difesa di un’attività che assurge al contrario a “benefit” non solo dal punto di vista salutare ma anche economico, come il personal trainer ci spiega: «L’attività fisica va a sgravare sulle casse dello Stato in termini di spese sanitarie in maniera importante, quindi considerare la nostra un’ attività non essenziale è un insulto non solo alla categoria ma anche alla scienza e alle divulgazioni scientifiche che hanno comprovato che l’attività fisica è la forma di prevenzione assoluta, che previene patologie o altre problematiche correlate alla salute». Pare che questo però sia un problema esclusivamente italiano: «L’Italia è una nazione retrograda da questo punto di vista – ha proseguito – perché a differenza dei paesi scandinavi (e non solo), che guardano con lungimiranza al futuro e promuovono l’attività motoria, addirittura facendo svolgere nel periodo scolastico 6 ore settimanali di attività fisica, in Italia abbiamo ancora 2 ore settimanali ed è una disciplina ghettizzata. Bisognerebbe quindi iniziare ad avere una diversa concezione dell’attività fisica, considerarla un beneficio dal punto di vista salutistico e non vederla solo come uno svago di cui poter fare a meno».

 

A cura di Carol Serafino