In poche ore è circolato a suon di condivisioni e like sui social la lettera affidata a Facebook dalla barlettana Enza Sollazzo, 31 anni, medico specializzando assunto da 11 mesi nel pronto soccorso Covid del Policlinico di Bari. La riportiamo di seguito:

«Ore 20, inizi il turno, prendi le consegne.
Cominci a scrivere: primo paziente, secondo paziente, decimo paziente, ventesimo paziente.
Sono 38 pazienti, noi siamo in due.
Inizi a visitarti i primi, poi devi interrompere, è arrivato un 118: dispnea in covid positivo.
Lo visiti, fai le richieste, chiedi all’infermiere, che nel frattempo sta ancora impazzendo con le consegne del pomeriggio, di staccarsi un attimo per fare un emogas.
Il paziente è positivo, bene, possiamo metterlo con i positivi.
Il paziente è dubbio, allora deve aspettare nel corridoio, con la bombola di ossigeno accanto perché le stanze per i pazienti dubbi sono finite.
L’emogas è discreto, gli attacco una venturi.
L’emogas fa schifo, ma non abbiamo più ventilatori. Speriamo che migliori con una maschera con reservoir.
Ricomincio il giro visite, il paziente della stanza a quattro letti sta desaturando. Il paziente della stanza a tre letti si è alzato dal letto, si è staccato l’accesso venoso e il catetere. La nonnina del deposito si è staccata la maschera e non vuole saperne di rimetterla. Il paziente giovane accanto a lei chiede una bottiglia d’acqua.
Chiedo aiuto agli infermieri, e loro mi aiutano sempre. Sempre.
Ma tu sei uno, gli infermieri sono quattro, i pazienti sono trentotto.
E hanno tutti ragione.
Il telefono che squilla in continuazione, tu che sei nelle stanze a vedere i pazienti e non riesci a rispondere. Ti senti male, perché lo sai che 38 persone significa 38 famiglie preoccupate.
Poi ti riesci a sedere e inizi a rispondere. Prima telefonata, seconda telefonata, a volte non riesci a seguire il filo del discorso perché nel frattempo stai facendo le richieste, Galileo si blocca, l’etichettatrice non funziona, devi riavviare il computer, e nel frattempo dall’altre parte del telefono ti stanno dicendo, per favore, di dare un bacio alla nonna. E tu ti sei dimenticato di quale nonna stiamo parlando.
Provi a fare una telefonata ai reparti, poi anche in fiera. Ma è sabato notte, non ci sono posti da nessuna parte.
Mandiamo due signore giovani in rianimazione; la collega deve aprire la sala operatoria per accoglierle. Le siamo grate, perché abbiamo recuperato due ventilatori. Li attacchiamo a due pazienti.
Nel frattempo siamo a 42 pazienti, hanno appena portato un altro 118. Coma in covid positiva, 85 anni. Ma non ci sono piu posti nemmeno per i positivi, la signora deve restare in corridoio in barella.
Sono le 5, gli infermieri non si sono fermati un secondo. Stanchi, sfiniti, sfatti, stanno combattendo in silenzio. Io e Lucilla ci guardiamo e sospiriamo, poi ci incazziamo, poi ci viene la risata isterica. Vorremmo fare la pipì, ma ormai sono le 7, aspettiamo il cambio. Diamo le consegne, siamo mortificate: non ci sono più stanze libere, non ci sono più ventilatori. Palla al centro, noi torniamo domani.
Noi non siamo eroi. E lo dico con convinzione. In questo casino i veri eroi sono quelli che a stento riescono ad arrivare alla fine del mese. Sono i ragazzini chiusi in casa da troppo tempo. Sono i liberi professionisti che non possono lavorare. Sono gli anziani che non possono vedere il nipote, perché è pericoloso. Sono le persone che muoiono da sole, perché continuiamo a combattere contro qualcosa di invisibile e di cui sappiamo poco. Sono le persone assistite in corridoio, che silenziosamente aspettano. Sono i familiari dall’altro capo del telefono.
Noi stiamo facendo del nostro meglio.
E forse, sicuramente, non basterà.
Ma è l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare».