a cura di Lucia Pepe

 

A Barletta è un’istituzione, il suo ultimo concerto in città (nel Fossato del Castello, ormai due estati fa) ha chiamato a raccolta migliaia di fan. Le sue canzoni sono diventate quelle del patrimonio folkloristico barlettano, canzoni che tutti in città conoscono o hanno sentito canticchiare per strada. Gino Pastore non ha bisogno di presentazioni nella città della Disfida: 75 primavere, è diventato un’icona cantando “Barletta c si bell quenn chiov” e altri successi come “Stella zopp”, “A zèit ca lìpp” e “Barletta alé”, diventato quest’ultimo l’inno del Barletta calcio nei gloriosi anni della serie B.

Facendo un uso responsabile dei social network (molto più responsabile di ventenni e trentenni), oggi Gino Pastore vive su facebook l’amore per Barletta  raccontando su questa piattaforma web le storie perdute della città. Così, scavando negli archivi fotografici dei barlettani, il cantautore racconta sulla sua pagina fan (che cura personalmente, altro che Gianni Morandi) le storie e i personaggi dietro quegli scatti:

«Io racconto la storia passata che la gente non conosce o ha dimenticato, fatti accaduti a Barletta negli anni ’50 – ’60 – ’70.. posto fotografie non fine a se stesse ma raccontando cosa c’è dietro” [E ne dà un esempio pratico, siamo nella piazza della stazione] “ad esempio questa fontana è stata costruita nel 1932 a sue spese da un imprenditore di Barletta, prima c’era una targa e ho postato una foto di quando la stanno costruendo. Nessuno conosceva la storia di questa fontana. Quando sono arrivati i tedeschi nel ‘43 a Barletta e hanno cannoneggiato la stazione, hanno danneggiato anche la fontana.. i barlettani vengono sulla mia pagina per scoprire cose come queste che nessuno ti racconta più. I giornali ti raccontano politica e cronaca, ti dicono tutti la stessa cosa, ma la gente ha bisogno anche di ritrovare le origini della sua città; purtroppo anche l’amministrazione cittadina non fa molto per mantenere vivo il suo folklore».

Sembra, il suo, un altro modo per amare Barletta, per raccontarla, dopo aver scritto canzoni sulla città e nella sua lingua.

«Si ma per me non ci poteva essere un altro modo di fare musica se non parlare di Barletta e farlo in barlettano. Per me la vera musica è la musica popolare, è da lì che sono nati i grandi cantautori italiani e anche se ho scritto canzoni in italiano è nel dialetto che sento veramente la musica. La musica popolare è pulita, è limpida e c’è un lavoro di ricerca. Le mie canzoni sono sui lavori e le persone che i barlettani possono riconoscere e ricordare. Certo ci sono le canzoni ironiche, divertenti, ma sono tutte canzoni dove c’è una storia e un messaggio e i barlettani lontani da qui riascoltando possono sentirsi a casa. Arrivano a visitare la mia pagina compaesani ormai sparsi per il mondo che vogliono ricordarne la storia nostrana quasi come un dovere verso i propri genitori che magari hanno dovuto espatriare all’estero per lavorare».

Ma come è arrivato alla musica popolare?

«Mio padre era armatore, io gli davo una mano per vendere il pesce e la sera lo portavo a un maestro di violino anziano che mi prese a cuore e mi insegnò qualche accordo e a strimpellare la chitarra. Poi iniziai a suonare ai matrimoni. Il mio primo gruppo  è stato quello dei Sudisti con i quali ho inciso il primo LP nel ’67. La prima canzone in vernacolo invece fu “Barletta c si bell quenn chiov” e quella l’ho scritta in dieci minuti, con la chitarra, un giorno mentre guardavo fuori dalla finestra la pioggia su Barletta. L’ho scritta tutta d’un getto, senza una correzione, senza stare a riflettere su questa o quella parola, quella canzone mi è uscita proprio così: suonata e scritta. E non avevo intenzione di pubblicarla, poi però ne sono arrivate altre e ho pensato di pubblicarle e hanno avuto tutte tanto successo».

gino pastore

Una canzone che ad esempio tutti i tifosi del Barletta conoscono è “Barletta Alé”.

«Eh si, erano i tempi d’oro del Barletta. Per far capire il successo che ebbe, ti dico solo che avevo una Volvo che ho dovuto buttare perché quando passavo in città con quella canzone la gente si buttava sulla macchina e me l’ha sfasciata! Quando arrivavo io uscivano tutti dalle loro case e anche i più anziani si mettevano a cantare e ballare. Fu un bel periodo perché si viveva un’unione particolare in paese, un’unione che i barlettani hanno vissuto molto raramente».

La musica le ha dato solo popolarità o anche fortuna? 

 

«Solo popolarità. Anzi, è l’indipendenza economica che ho conquistato altrove che mi ha permesso di fare musica e registrare e avere successo. Ho sempre fatto altri lavori; alcuni però, come il gestire locali e discoteche, sono stati comunque legati alla musica. Alla fine degli anni ’60 aprii a Barletta la prima discoteca, una sala da ballo dove potevo suonare con I Sudisti, la mia band, e poi ne aprii un’altra, il Ranch. Con il complesso veniva gente ma non facevamo abbastanza soldi, il gruppo si divise e io mi presi l’amplificatore (suonavo il basso) e iniziai a mettere dischi. Cioè facevo ballare non con musica dal vivo ma con i vinili e quei pochi che vennero in sala mi presero per pazzo. Era avanti ma pensavano me ne fossi andato di testa, oggi è una cosa normale, all’epoca no. Ma poco alla volta iniziò ad arrivare gente, la musica piaceva e andava così bene che pensai di ampliare e me ne aprii una più grande nel ’71, il Casanova: era una sala da ballo ma si ballava solo la domenica pomeriggio dalle 5 alle 9. Le ragazze uscivano la domenica e di nascosto dai genitori venivano a ballare. Poi nel ‘73 aprii una jeanseria in via d’Aragona, la musica soldi non me ne dava. Sul corso c’erano solo due negozi di abbigliamento classico per signori e io ero l’unico negozio per ragazzi, per abbigliamento casual: jeans, giacca di velluto a coste… con la discoteca e i soldi della jeanseria potevo permettermi la bella vita e di fare musica, altrimenti non avrei avuto i soldi per registrare».

Però ha conosciuto Caterina Caselli, ha avuto la possibilità di “sfondare” nella musica italiana.

Si, mi chiamò il direttore artistico della CGD [casa discografica fondata da Teddy Reno e futura Sugar] per sentire le mie canzoni, in particolare a loro piaceva il motivetto de “I Mnenn d Barlett”. Stavano cercando cantautori popolari da poter riarrangiare in italiano e quando arrivai erano tutti lì, Fiordaliso, Caterina Caselli… ma se volevi sfondare dovevi rimanere a Milano, “fare la scala santa”, stare nel giro e fare amicizia con artisti e produttori. Io avevo già 38 anni, avevo una famiglia e la jeanseria avviata, non potevo lasciare il lavoro, viaggiavo già in un benessere che la musica non poteva darmi e allora decisi di andarmene. Così puntarono su Pierangelo Bertoli e io fui contento perché lui mi piaceva».

Ci sono artisti pugliesi che le piacciono particolarmente o con cui ha stretto amicizia?

«Ne ho conosciuti tanti, con Caparezza però ci sentiamo e siamo amici, lui è un mio fan sfegatato».