“Sterminio di uomini, donne e bambini, come sterminio di animali, sterminio dei proprio simili e dunque sterminio di se stessi, bruciati. Smettila di essere sordo, le grida di quanti sono stati martoriati si sentono ancora!”, questo è solo uno dei brani interpretati da Francesco Paolo Dellaquila sabato 27 gennaio, per rievocare una delle pagine più brutte della storia dell’umanità, l’Olocausto. Il Giorno della Memoria è la commemorazione internazionale dedicata alle vittime della Shoah, istituita nel 2005 nel corso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un giorno in cui è necessario parlare del significato di quello sterminio, provando a comprendere al meglio cosa è successo, affinché nessuno dimentichi e l’orrore non si ripeta. La ricorrenza si celebra ogni anno il 27 gennaio, giorno in cui nel 1945 i reggimenti dell’Armata Rossa irruppero nel campo di concentramento di Auschwitz, liberando i prigionieri. La Giornata della Memoria, dunque, ha un duplice compito: quello di ricordare, per far sì che nessuno dimentichi, e quello di tramandare, di raccontare la Shoah alle future generazioni e assicurarsi che non accada mai più niente del genere.

In occasione di questa ricorrenza, le associazioni Anmig e Ancr con il patrocinio morale della delegazione Bat delle Guardie d’Onore alle Reali Tombe del  Pantheon , presso l’associazione Anmig a Barletta, hanno organizzato un vernissage, intitolato “I colori dell’Olocausto” curato dal socio Costantino Sardaro, coadiuvato dal presidente ANMIG e ANCR Ruggiero Graziano. Un vero e proprio percorso fotografico per non dimenticare quando il mondo inorridì. Nella tragicità della guerra all’interno dei campi di concentramento nazisti, i colori infatti si trasformarono in luce del demonio, selezionando proprio a seconda del colore, lo status della persona cui era cucito sul petto. Dopo la presentazione della mostra fotografica, sono state lette e recitate alcune poesie a tema, da Francesco Paolo Dellaquila e Gianni Fimiani.

Percorso fotografico Olocausto a Barletta (5) Percorso fotografico Olocausto a Barletta (6)

Toccante la testimonianza di Pasquale Caputo, figlio di Francesco, un internato militare barlettano, che ha riportato alcune delle vicissitudini subite dal padre durante la prigionia in uno dei Lager nazisti. “Mio padre era analfabeta, grandissimo lavoratore, il suo racconto venne fuori solo nel 1956, davanti al fuoco e lui mi raccontò questo lungo viaggio di ritorno a piedi dalla Germania fino a Barletta” esordisce Pasquale, “ lui non sapeva neanche dove era stato, non sapeva il periodo storico che aveva vissuto, non sapeva del nazismo, ma emerse dal suo racconto una grande sofferenza e privazione, che gli aveva portato via 10 anni di vita.”  Aggiunge il figlio di Francesco: “Io attraverso ricerche e approfondimenti sono riuscito a comprendere che mio padre era stato in un campo di concentramento, fino a risalire al numero che gli era stato assegnato e ad una sua foto segnaletica, da cui si vede che era stato picchiato. E ho visto per la prima volta mio padre da giovane e sono stato ore a guardarla… Noi siamo ‘i figli della guerra’ e abbiamo il dovere di ricordare in memoria dei nostri padri”.

Testimonianze come questa sono quelle che non si devono dimenticare, che devono entrare nella memoria dei nostri giorni e oltre. Sono rimasti in pochi a poter raccontare la tragedia dell’Olocausto: voci che parlano ai più giovani, che continuano a fare memoria attraverso il loro racconto, la loro vita, che accompagnano in quei luoghi che hanno segnato la loro esistenza, dove chi sopravviveva, veniva privato di ogni diritto. In tal senso non si può prescindere dalla ‘Testimonianza per eccellenza’, soggetto anche di opere letterarie, quella di Primo Levi, perché l’impossibilità della rassegnazione all’orrore e alla sua realtà continui a restare custodita nel tempo di chi sopravvive.

 Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case,

voi che trovate tornando a sera

il cibo caldo e visi amici:

considerate se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi;

ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

Poesia ‘Shemà’ (ovvero ‘Ascolta’) che apre il romanzo “Se questo è un uomo”.

A cura di Piera Ornella Barracchia