“Dedicato ai molti Barlettani che contribuirono alla lotta di liberazione nella speranza che storie come questa non vengano dimenticate dalle Istituzioni locali – lo scrivono Pasquale e Giuseppe Gammarota in ricordo del padre partigiano tornando anche sulla polemica per cui nelle Linee di mandato dell’Amministrazione comunale non è stato fatto alcun riferimento all’importante ruolo svolto da Barletta e i suoi cittadini per la Resistenza – Francesco Gammarota, il partigiano “Brancaleone” era nostro padre. Nei giorni confusi dell’armistizio dell’8 settembre 1943 era militare a Savona e fu facile preda, come tanti altri soldati rimasti senza ordini, dai Tedeschi. Riuscì fortunosamente a fuggire e, non potendo rientrare a casa (l’avrebbe fatto volentieri!) salì in montagna per unirsi ai partigiani dell’Oltrepò pavese del Distaccamento “Casotti” di cui divenne anche vicecomandante. In quel momento non era guidato da un’ideologia politica, che avrebbe poi maturato nei lunghi giorni della sua lotta di Liberazione, mai – però – avrebbe collaborato con i nazisti e con i fascisti di Salò. Con due compagni di lotta barlettani, Raffaele Capasso e Nicola Filannino (Brancaleone, nel retro di una foto che li ritraeva nella neve e con i fucili nelle mani, scrisse: “I tre ribelli inseparabili”) fu costretto a nascondersi nel cimitero di Zavattarello. Una giovanissima partigiana di Voghera sacrificò la sua vita per salvare la vita di ragazzi che neanche conosceva. Tra i partigiani non esistevano confini geografici, non esisteva Nord e Sud: erano tutti fratelli, avevano scoperto il valore della solidarietà, si sostenevano e si aiutavano anche se questo poteva significare diventare vittime delle rappresaglie nazifasciste. A guerra finita ritornò a Barletta, la sua città; non pensò neppure per un attimo di sfruttare la sua appartenenza alla Resistenza per ottenere benefici, non chiese premi o riconoscimenti. Riprese a fare l’operaio. Anche quando divenne consigliere comunale per il Partito comunista italiano, lo fece “con disciplina ed onore” così come dice la Costituzione nella quale ha sempre creduto e che ha sempre rispettato. Per lui, la politica non poteva e non doveva mai essere lo strumento per “dare una svolta” alla sua vita, il trampolino per arrivare chissà dove. Negli ultimi anni della sua vita, volle saldare il debito che sentiva di avere con la partigiana che lo aveva salvato.

Grazie alla trasmissione “Chi l’ha visto” che gli dedicò due serate, riuscì a conoscere il suo nome: Anna Maria Mascherini. Andò a Zavattarello, ritrovò il suo comandante, Luchino Dal Verme, il partigiano “Maino”. Erano entrambi uomini di poche parole, si guardarono negli occhi, si abbracciarono piangendo – Francesco l’operaio e Luchino il conte – e forse pensarono, ma solo per un attimo, ai loro sogni rimasti irrealizzati.

Poi, pose un mazzo di fiori sulla tomba di Anna Maria e tornò a casa. Morì dopo poco. La sua storia e quella degli altri 262 partigiani barlettani che combatterono per restituire dignità all’Italia, porre fine al Ventennio fascista e donarci la Democrazia deve far parte della Memoria identitaria di tutti i Barlettani e avrebbe dovuto trovare adeguato posto nelle Linee di mandato dell’Amministrazione comunale di Barletta. Non dedicare loro una sola parola significa non riconoscere le loro giuste scelte, il loro coraggio, il loro sacrificio”.